Nei mesi scorsi, soprattutto in occasione del Sinodo sull’Amazzonia, si è fatto un gran parlare del celibato dei preti. Ora se ne riparla, e si organizzano clamori e si gioca persino con il fuoco della divisione, in occasione dell’uscita di un libro che il papa emerito Benedetto XVI ha scritto insieme al cardinal Sarah. Il dibattito non è nuovo, va avanti da anni e ogni tanto ritorna, con amplificazioni e semplificazioni mediatiche che, stavolta forse più di altre volte, lasciano veramente molto perplessi e feriti.
Partiamo da una semplice domanda: come e perché si sta parlando del celibato dei preti? Non si può dare per scontato, purtroppo, che il motivo sia quello di capire un po’ meglio come stanno le cose e per operare davvero un discernimento serio, aperto, saggio, prudente. Di certo la discussione è legittima, soprattutto se la si fa – diciamo così – non "per emergenza", ma perché ci sono valori grossi in gioco. È bello che nella Chiesa, a tutti i livelli, si possa ragionare, riflettere, valutare tutto quanto sta a cuore per l’annunzio del Vangelo e perché non manchi a nessuno, per carenza di preti, la possibilità di nutrirsi dell’Eucaristia o del pane del perdono.
È bello e promettente che nei luoghi della formazione, ma anche tra preti e con i nostri vescovi si possa condividere, ci si possa confrontare sul celibato, parlandone con passione e con rispetto, aspettando con fiducia e rispetto la parola del Papa nella prossima Esortazione post-sinodale: riguarda noi, la nostra vita e la vita del popolo di Dio. È bello anche il fatto che uomini e donne, credenti e non credenti, dicano la loro, in maniera franca, diretta, anche critica, speriamo sempre in modo laicamente dubitante, sapendo anche guardare dal punto di vista dei credenti e di chi l’esperienza del celibato la vive.
A cominciare da quello di papa Francesco che più volte – cito qui ciò che disse, giusto un anno fa, sul volo che lo riportava a Roma dalla Gmg di Panama – ha ricordato che il celibato non è un« dogma», e che è giusto studiare, riflettere, pregare e agire per risolvere in alcune aree del mondo «il problema pastorale della mancanza di sacerdoti» e ha citato, in proposito ciò che avvenne oltre la "cortina di ferro" durante l’era sovietica.
Ma ha spiegato e rispiegato di ritenere il celibato un «dono per la Chiesa» e per questo di «non essere d’accordo di permettere il celibato opzionale». Intanto, però, non confondiamo i termini della questione e chiediamoci: siamo sicuri che il problema dei preti cattolici di rito latino sia il celibato? Come mai in certi ambienti, anche in casa nostra, si è insinuato il luogo comune che il celibato sia quasi necessariamente espressione o fonte di immaturità, frustrazione, disagio, quando non di patologia? Non che per alcuni non lo sia o non lo possa essere – e questo stimola a una sempre più seria riflessione sul discernimento e sulla formazione al sacerdozio e nel sacerdozio –, ma da qui a far passare l’idea che "abolendo" il celibato o rendendolo opzionale, si siano risolti i problemi e le difficoltà, significa rasentare la banalità; significa far torto a tante vite, rendendosi incapaci di cogliere i drammi come le gioie, le frustrazioni, come i sogni e la poesia di vite profumate di dono, d’amore e di Vangelo.
Tra l’altro esperti anche in ambito laico evidenziano da tempo che la vita sessuale di moltissime persone – sposate, conviventi, single, credenti e non credenti – sia attraversata da grandi insoddisfazioni e difficoltà anche serie, nonostante la "rivoluzione sessuale", nonostante la si viva in modo sempre più precoce e senza quasi nessun riferimento a valori e ideali. Nella comunità ecclesiale e tra noi pastori, poi, ci sarebbe da farsi qualche altra domanda: ci crediamo o no che il celibato è un valore? E la "verginità", la "castità" sono parole che indicano vite represse o possono entrare in gioco come sfumature dell’amore e dell’arte d’amare?
Non sarebbe una bella e laica sfida ridare loro diritto di cittadinanza come provocazione ad allargare la capacità di amare e a far emergere le ragioni del cuore che la ragione non conosce? Torniamo al celibato dei preti: se il suo significato non è collegato solo a una legge ecclesiastica, ma esprime un aspetto dell’imitazione di Cristo, l’unione intima, affettiva, profonda, in anima, corpo, affetti, sentimenti, sessualità, con Lui; se il celibato esprime una piena e appassionata dedizione alla Chiesa, a un comunità concreta, per un più pieno coinvolgimento nell’azione missionaria, facendo dono completo di se stesso; se il celibato esprime non la rinuncia ad amare, ma la scelta di amare teneramente e liberamente tutti e ciascuno, senza riserve, senza tenere nulla per sé, rinunciando al sesso, a una propria famiglia, ai figli, con tutto il valore simbolico che questo esprime; se il celibato è per annunciare il Regno che verrà, anticipando la morte nella propria vita – il senso più profondo del suo aspetto di 'mortificazione' – e così testimoniare la bellezza della risurrezione e il profumo dell’eternità, la gioia del paradiso dove non ci sarà più né moglie né marito; se il celibato è e può essere tutto questo e altro ancora che lo Spirito nella sua fantasia suggerisce, allora forse un po’ di garbo nel trattare la questione ci vuole!
Torna alla mente quanto Michele Ambrosino, il mio vecchio parroco di Procida, scriveva quarant’anni fa esatti in un prezioso libro ('Anche morire è vivere'): «Per parte mia sono contento che la castità mi ponga tra i poveri, tra quelli precisamente che non dispongono neanche del proprio corpo, mi fa partecipe della povertà dei malati e di tutti quei miseri ai quali la vita ha negato una propria famiglia. Non trascuro poi di riflettere sulla sorte delle vedove, delle persone tradite e abbandonate e su quella di quanti, per mille motivi, sono forzati a una solitudine che non hanno certo scelto… Sono contento di essere tra 'i dannati della terra', ai quali andarono le preferenze del Signore e nella nostra fedeltà a Gesù Cristo, che esige dai suoi discepoli un amore più forte dell’amore alla propria vita, scaviamo la sorgente di quella gioia segreta che disseta ogni uomo. Non ci facciamo illusioni – forse non ce ne siamo mai fatte – 'La radice e il frutto della verginità è una vita crocifissa' (san Giovanni Crisostomo)». E non è un Crocifisso per amore che ha ridato al mondo vita, gioia e speranza?
Sacerdote e psicologo