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Nel 1991 Michail Sergeevich Gorbaciov si dimise da presidente dell’Unione delle Repubbliche Socialiste sovietiche. La dissoluzione cambiò letteralmente il mondo. Finivano, almeno apparentemente, il bipolarismo fra Washington e Mosca e la Guerra Fredda. Quello di cui non si è forse mai parlato abbastanza è di come sia cambiata la Russia non tanto al suo interno, ma nel suo rapporto con il mondo circostante. L’aspetto certamente più inesplorato di tutti, è stato come Mosca, con l’avvento al potere di Vladimir Putin nel 1999 e la nascita e il consolidamento del putinismo, abbia dato vita a una nuova concezione di guerra, che stiamo imparando a conoscere solo ultimamente e che è portata avanti senza l’utilizzo esclusivo delle sole armi e per piani paralleli.
La Guerra Fredda, infatti, era finita e l’Urss non c’era più. Ma dopo il passaggio di poteri da Boris Eltsin all’allora giovane ufficiale del Kgb, Vladimir Putin, la Russia, dopo anni di sostanziale inattività, sembrava decisa a riprendersi il suo posto nel mondo. Certo, erano cambiate molte cose. Per primo, era cambiato il mondo stesso, con nuove potenze, in primis la Cina che si affacciavano per contendersi l’ordine mondiale e una Nato che ampliava i suoi confini. Particolare, quest’ultimo, che è sempre stato interpretato da Mosca come una minaccia all’esistenza della neonata Federazione Russa e all’integrità del suo territorio.
In secondo luogo, era cambiata anche la Russia. Non possedeva più né le dimensioni, né le risorse della vecchia Unione Sovietica. Inoltre, gli anni del Comunismo avevano fatto rimanere lo sterminato territorio indietro dal punto di vista delle tecnologie digitali, mentre il sistema economico faceva acqua da tutte le parti, e non permetteva di riservare all’industria della Difesa il budget faraonico stanziato dagli anni dello stalinismo fino ai primi Anni 70, quando alle spese militari veniva destinato il 60% del bilancio del governo centrale. Erano i tempi in cui si dovevano inseguire gli Stati Uniti nella corsa agli armamenti. Mosca investì miliardi di dollari, che avrebbero potuto essere impiegati per modernizzare il Paese. Ma, nonostante questo, rimase sempre indietro rispetto a Washington. Nikolaj Vasil’evich Ogarkov, uno dei più valoro- si generali di epoca sovietica, un giorno durante un’intervista ammise candidamente che l’Urss era indietro di due generazioni rispetto agli Usa. E questo quando Mosca si presentava ancora come una super potenza.
Dopo la fine del Comunismo il Paese si trovò con un ritardo amplificato rispetto ai decenni precedenti, le casse vuote, ma l’ambizione di tornare a contare sull’arena internazionale rimaneva, se non per essere il diretto antagonista degli Stati Uniti, almeno per mettere i bastoni fra le ruote a quello che rimane il nemico numero uno di sempre, seguito a ruota da buona parte dalle nazioni che formano l’alleanza atlantica e per estensione l’Oc- cidente. La prova che la Russia non poteva più permettersi una guerra convenzionale arrivò con la con la Prima guerra del Golfo, quando Mosca si rese conto che gli americani ormai erano così avanti da essere diventati irraggiungibili.
Putin prese il potere nel 2000, ereditandolo sostanzialmente da Boris Eltsin, che gli lasciava un Paese sostanzialmente sull’orlo del baratro e in preda al caos. L’allora giovane presidente fu il primo a intuire le potenzialità della rete, inserendosi così nel solco di un dibattito che, a livello civile e accademico, era partito decenni prima. In pochi anni, la Federazione Russa recuperò il gap tecnologico e informatico, grazie a inve- stimenti consistenti e alla qualità delle sue strutture universitarie. Il problema è che Putin trovò il modo di usare la tecnologia e la rete anche per fare la guerra. La sua Russia ha dato vita alla cosiddetta 'guerra non lineare', che si avvale tanto di attacchi informatici, quanto di utilizzo dei social network, affiancati da azioni militari che spesso hanno scopo di deterrenza e da un composito sistema di media organizzati nei minimi dettagli con l’obiettivo di fare filtrare la versione del regime in ambiti diversi, da quello, più generalista, della rete, fino all’ambiente politico e accademico.
Nell’elaborare questa nuova concezione di guerra, Putin è stato affiancato da due figure fondamentali per comprendere questo fenomeno e in parte anche lo stesso putinismo. Il primo è il generale Valerij Vasil’evich Gerasimov, Capo dello Stato Maggiore generale delle Forze Armate e che dal momento della sua nomina, nel 2012, ha iniziato a sottolineare sempre di più il ruolo fondamentale della comunicazione e dell’informazione nel teatro di guerra, che non era rappresentato più dal campo di battaglia, ma dalla rete. Il secondo è Vladislav Yuryevich Surkov, già temuto ad- visor di Putin e vicepresidente della Federazione Russa. È considerato il creatore del putinismo e uno dei principali artefici della macchina della disinformazione sui social, nota anche come 'fabbrica dei troll' (i provocatori nelle discussioni in rete, ndr) e che ha influenzato il dibattito in molte società di Paesi occidentali, in primis quella americana e quella inglese, non solo sui principali appuntamenti elettorali, ma anche su temi di attualità scottanti, in primis i vaccini.
Attacchi hacker e cyberwar, attività dei troll sui social, misure di deterrenza e soft power, inteso nell’accezione russa, quindi particolarmente muscolare e assertivo, vanno a formare quello che Gerasimov chiama 'approccio olistico al danno'. Una Russia presente in un teatro di guerra virtuale, nel caso degli hacker e dei troll difficilissima da smascherare e che cerca di imporre la sua presenza e la sua verità nel blocco occidentale. Una delle armi principali, e questo è un aspetto che dovrebbe fare riflettere il mondo del giornalismo, è la libertà di informazione, per noi considerata un diritto sacro e inalienabile, mentre per quella che rimane l’altra parte del mondo un ventre molle in cui colpire.
Nel libro 'Brigate Russe' (Ledizioni, 213 pagine, 14,90 euro), ho approfondito tutti questi aspetti, raggruppati in quattro parti. La prima aiuta a collocare il fenomeno dal punto di vista storico e geopolitico. La seconda è dedicata alla cyberwar degli hacker. La terza è dedicata ai troll e a come vengono utilizzati i social per manipolare l’opinione pubblica e mettere in difficoltà gli avversari. La quarta, infine, è dedicata alla propaganda di Stato, più o meno esplicita. Un soft power che però, inteso nell’accezione russa, mira a far ritagliare spazi di manovra sempre più alti. A dimostrazione di come sia sempre più importante riflettere su quello che si legge e saper fare selezione. La Russia ha inventato un nuovo modo di fare la guerra, ma altre nazioni, come la Cina, hanno iniziato a imitarla.