Sedici gennaio 2023, trent’anni ed un dì dopo l’arresto di Totò Riina, ecco uno dei giorni fondamentali per la storia del nostro Paese: quello della cattura del super latitante Matteo Messina Denaro.
Qualcuno potrà accusare di eccessivo giubilo, magari anche di retorica esasperata. A costoro bisogna opporre le sofferenze, la richiesta di giustizia, le mancanze urlate dei familiari di tante, troppe, vittime di mafia. Loro – i familiari di chi è caduto per mano mafiosa e che, per dirla con don Luigi Ciotti, nell’ottanta per cento dei casi non hanno verità – reclamano non (solo) l’importanza e il valore della memoria, bensì proprio la richiesta di verità.
Con Messina Denaro assicurato alle patrie galere si chiude la stagione delle grandi latitanze e, soprattutto, quella dei corleonesi al vertice di cosa nostra. È il punto d’arrivo di una caccia durata trent’anni.
Ogni volta che ci si avvicinava all’obiettivo, per un motivo o un altro, la cattura sfuggiva. E non per l’incompetenza delle migliori forze investigative poste con il fiato sul suo collo, bensì – volendo citare le parole della pm Teresa Principato (uno dei magistrati che ha dedicato parte della sua vita alla caccia di Messina Denaro) – perché «ha avuto uomini fidati in tante amministrazioni: dalle questure ai Servizi. Così riusciva a sapere in tempo reale delle nostre indagini. Ed è sempre riuscito a fuggire». Ieri no. Il 16 gennaio, però, rappresenta anche il punto di ripartenza. Già pare di sentirli alcuni commentatori, magari negazionisti da sempre, spiegarci che «con questo arresto la mafia è sconfitta». No, purtroppo. Niente affatto. Innanzitutto, perché sono tanti, troppi, i misteri che il boss di Castelvetrano custodisce. Quei segreti che nascondono le collusioni, le trame indicibili, i silenzi complici. Con una riduzione giornalistica potremmo dire: tutto quello che c’è dietro alla stagione stragista, dagli attentati in Sicilia del 1992 a quelli del 1993 in continente. Segreti che sono più misteriosi della sua latitanza – ancora tutta da comprendere – e di cui, il pupillo di Totò Riina, è certamente a conoscenza. Quella parte di trattativa tra la mafia (o meglio le mafie) e pezzi infedeli dello Stato che oramai non si può più negare, a maggior ragione dopo la sentenza d’Appello del Tribunale di Palermo che, nonostante una raffica di assoluzioni, la cristallizza.
Oggi, con l’arresto di Messina Denaro alle spalle, c’è anche la necessità di permettere a chi ha indagato per giungere a questo risultato fondamentale di continuare a investigare sulla mafia, quella degli affari, la nuova “cosa nostra” che probabilmente già da tempo non aveva al suo vertice Matteo Messina Denaro (certamente il capo del mandamento trapanese, non il vertice della cupola). Quella che continua a fare soldi, a investire, a essere pervasiva nell’economia legale. Esattamente la stessa che mette a rischio i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Non bisogna smantellare queste intelligenze investigative, anzi, bisogna rilanciare. Mai come oggi si conferma l’importanza del doppio binario immaginato da Giovanni Falcone contro la piovra: il carcere duro (il 41bis dell’ordinamento penitenziario) che taglia i contatti tra i padrini e l’organizzazione mafiosa e l’ergastolo ostativo (il 4bis del medesimo ordinamento), quello che non permette ai boss di uscire dalla galera senza aver collaborato con la giustizia.
Si può e si deve rendere più preciso l’uso di questi strumenti, non tornare indietro, perché questo comprometterebbe il cammino, i successi e gli impegni di cui ancora necessita il nostro Paese nel contrasto alle varie forme in cui si articola la criminalità organizzata. Questi sono i segnali fondamentali da dare. Guai a mostrarsi arrendevoli. Sarebbe come fare l’occhiolino alle vecchie e nuove leve di padrini. E vanificherebbe il successo di ieri, relegandolo in un angolo della storia come l’ennesima opportunità persa.