Credono di possedere mentre sono posseduti, non padroni del denaro ma venduti ad esso
Cipriano, De lapsis
Il capitalismo sta facendo col cristianesimo qualcosa di analogo a quanto il cristianesimo aveva fatto con l’impero romano, quando, a partire dal IV secolo, si sostituì alla sua cultura e alla sua religione, nutrendosi di esse. Se quindi, seguendo volentieri Walter Benjamin, diciamo che il capitalismo è cresciuto come «parassita» del cristianesimo, dovremo dire che molti secoli prima era stato il cristianesimo a crescere, nel senso che vedremo, come parassita del mondo romano, deponendo il suo uovo in un altro nido.
Partiamo da una domanda: che cosa della visione economica dei Vangeli e del Nuovo Testamento è entrato nella christianitas medioevale e quindi nell’ethos dell’Occidente? L’etica economica nel Nuovo Testamento non è semplice. Perché non è mai stato facile mettere assieme la parabola dei talenti con quella dell’operaio dell’ultima ora, l’etica del «buon samaritano» con quella dell’«amministratore disonesto» – dove, unica volta nei Vangeli, compare la parola oikonomia. Gesù chiamava i poveri «felici», ma lui stesso non era "tecnicamente" un povero, e non escludeva i ricchi dai suoi (Matteo, Zaccheo, Giuseppe d’Arimatea...). Alcune parole su beni e ricchezze occuparono da subito un posto speciale. La prima è il racconto dell’«uomo ricco» (noto come «giovane ricco»), dove Gesù per rispondere alla sua richiesta di «ottenere la vita eterna» gli indica la «sola cosa» ancora mancante: «Vendi tutto quello che hai, dallo ai poveri, poi vieni e seguimi». E poi, di fronte al suo rifiuto, formula una delle sue frasi "economiche" più celebri – quella sul ricco, il cammello e la cruna dell’ago (Marco 10, 18-22). Una visione critica della ricchezza, che si ricollega alla grande tradizione profetica biblica (Amos, Isaia), a Giobbe e Qoelet. Al tempo stesso, dobbiamo tener presente che la critica della ricchezza contrasta con l’altra anima ben presente nella Bibbia, quella che legge i beni come benedizione di Dio e come segno di giustizia delle persone (ad esempio Abramo e i patriarchi).
L’altro grande luogo "economico" del Nuovo Testamento è il capitolo quarto degli Atti degli apostoli dove si descrive la comunione dei beni dei cristiani di Gerusalemme: «La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune» (4, 32). Qui, con la comunione, troviamo la distinzione tra uso e proprietà dei beni, che secoli dopo diventerà centrale con il movimento francescano.
Si deve notare però una differenza importante tra la visione della povertà/ricchezza che emerge dall’episodio del giovane ricco del Vangelo e quella presentata negli Atti. Lì, il convertito alla buona novella donava i suoi beni ai poveri ed entrava nella comunità cristiana come povero (per scelta). Nella comunità di Gerusalemme, invece, «nessuno tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno» (4,34-35). Qui i beni non vengono donati ai poveri, l’enfasi è posta sulla redistribuzione interna alla comunità. Più che la povertà in sé, è la comunione intra-comunitaria a essere posta a cuore della Chiesa, perché l’ideale era: "nessun bisognoso" tra i fedeli. Infine, le lettere di Paolo. Qui uno spazio importante è attribuito alla "colletta" per aiutare «i santi» (bellissima espressione) della Chiesa di Gerusalemme. Il suo pensiero è centrato sul concetto di uguaglianza: «Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza... e vi sia uguaglianza» (2 Corinti 8, 13-14). Siamo nella stessa linea degli Atti: il centro non è la povertà ma la comunione dei beni. Quindi, nel Nuovo Testamento, se si eccettua la (fondamentale) pagina delle Beatitudini, a interessare è l’atteggiamento nei confronti della ricchezza, non tanto la povertà. Se poi guardiamo anche la letteratura dei Padri della Chiesa, ritroviamo spesso questo duplice insegnamento nei confronti della ricchezza: liberarsi dai beni è pre-condizione personale per iniziare una vita nuova dove i veri beni sono altri (occorre sgomberare i granai per accogliere il grano nuovo), ma la stessa ricchezza è anche necessaria per poter ridurre la povertà nella comunità. Scriveva Clemente Alessandrino: «Il Signore approva l’uso delle ricchezze, tanto da comandare la comunione dei beni» (Quis dives salvetur).
Con la fine della stagione primitiva e carismatica della Chiesa, poi, la diffusione del cristianesimo determinò naturalmente l’arrivo crescente di persone benestanti nelle comunità. Significativo fu un episodio avvenuto a Roma tra il 404 e il 405 (Vita Melaniae). Due giovani sposi cristiani, Valerio Piniano e Melania la Giovane, avevano un grande patrimonio. Attratti da una vita ascetica, iniziarono a disfarsi della loro enorme ricchezza per vivere una vita in povertà, in Sicilia, poi a Gerusalemme, per imitare la vita povera dei primi cristiani. Gli sposi affrancarono 8.000 schiavi, e svendettero le proprietà. Gli schiavi però protestarono e si rivoltarono per questa scelta perché si ritrovarono senza alcuna protezione, e molte delle terre finirono abbandonate. Un episodio, questo, che contribuì al dibattito su povertà e ricchezza, che coinvolse molti teologi tra il IV e V secolo. Siamo dopo l’Editto di Milano, e il cristianesimo stava via via prendendo nelle masse il posto della religione romana. Occorreva qualcosa di nuovo. Fu Agostino a offrirlo.
Tornato in Africa, Agostino era molto interessato all’unità del popolo cristiano, e quindi fu costretto a una «certa reticenza nei suoi rapporti con i ricchi» (Peter Brown), certamente maggiore di quella di Paolino da Nola, Gerolamo o Ambrogio. Con Agostino si accentuò la lettura morale delle parabole e degli episodi "economici" di Gesù, già presente nei primi Padri, e le ricchezze di cui disfarsi diventano le passioni cattive. La ricchezza in sé è buona, ma è soggetta come tutti i beni alla corruzione. Ad Agostino interessavano soprattutto la concordia, la filantropia, le elemosine, l’ordine e l’amor civicus romano. E così riprese quasi in toto l’etica economica romana classica, inclusa l’idea che i ricchi erano necessari per la gestione del potere e del buon governo. A complicare il tutto ci fu anche il ruolo di Pelagio, un "eretico" contro cui Agostino ingaggiò una durissima battaglia teologica. Anche se il centro di quella grande polemica era il tema della grazia e della salvezza, Pelagio e i suoi seguaci svilupparono, anche per un’influenza della filosofia stoica, una visione negativa radicale nei confronti della ricchezza, che attecchì particolarmente nelle élite romane. Conseguenza della teologia pelagiana della salvezza legata alle opere, i ricchi per salvarsi dovevano rinunciare a tutti i loro averi (come Piniano e Melania), e quindi cercare di passare nella cruna dell’ago: «Un ricco che rimanga in possesso delle sue ricchezze non può entrare nel Regno» (De divitiis). È la rinuncia volontaria alla ricchezza l’opera che ci salva. E poi aggiunge, chiaramente in polemica con Agostino: «E non gli può giovare a nulla, nell’assicuragli la salvezza, usare le sue ricchezze per elemosina». I pelagiani tentarono anche una analisi della morfologia e dell’origine della ricchezza, arrivando a conclusioni molto forti: «Difficilmente la ricchezza può essere acquistata senza qualche ingiustizia» (De divitiis).
La battaglia teologica fu vinta da Agostino, e insieme alla teologia di Pelagio fu sconfitta anche la sua visione della ricchezza: «Se i ricchi saranno virtuosi, stiano pur tranquilli: quando arriverà l’ultimo giorno si troveranno sull’Arca» (Agostino, Sermo Dolbeau). E così, il posto del motto pelagiano – «Togli i ricchi e non ci saranno neanche i poveri» – fu preso da quello agostiniano: «Togli la superbia, e la ricchezza non ti recherà nocumento» (Disc. sul VT, sermo 39,4). Il cammello riuscì a passare perché fu allargata di molto la cruna dell’ago. La vittoria di Agostino orientò decisamente la morale economica dell’Europa e quindi la storia dell’Occidente. A questo punto dobbiamo tornare al "parassitismo" da cui siamo partiti. Ciò che noi chiamiamo visione cristiana della ricchezza e della povertà fu in grande parte una eredità che il cristianesimo raccolse dal mondo romano. Sull’uso delle ricchezze il cristianesimo medioevale lasciò le forme della civiltà romana (quasi) immutate. La mancanza nei Vangeli di una vera e propria dottrina popolare sulla ricchezza (quella che c’era fu considerata troppo esigente per diventare universale) fece sì che i teologi e i padri adottassero l’etica civica romana preesistente che ben si prestava a diventare etica possibile per tutti, ricchi e poveri. Mentre su altre dimensioni della vita e della religione il cristianesimo portò in Europa una grande novità, l’etica economica cristiana nacque da un innesto sull’albero romano (e greco) e sulla sua etica privata e pubblica. Furono di certo più influenti Cicerone e Seneca del "giovane ricco" e della "comunione dei beni". L’assistenza ai poveri, l’annona, le donazioni e la magnanimità dei ricchi, su cui si costruì la cultura della ricchezza e della povertà nel Medioevo, erano di fatto già presenti e operanti nel tardo impero romano; i cristiani li ripresero cambiandoli solo al margine e non su aspetti decisivi (per esempio, la ricompensa per la beneficienza non era più la statua nel foro ma il paradiso). Per poter diventare possibile per tutti l’etica economica cristiana fu costretta a pagare il prezzo di diventare molto romana, a «crescere parassitariamente» sull’etica dell’impero che si stava dissolvendo.
C'è, infine, un altro aspetto rilevante, su cui torneremo. Parallelamente all’affermazione di un’etica della ricchezza possibile, conciliante e moderata, in quegli stessi secoli iniziava il grande movimento del monachesimo. Incominciò in quel tempo a prendere piede l’idea che la radicalità richiesta dai Vangeli e dagli Atti in tema di rinuncia alle ricchezze e di comunione dei beni potesse finalmente diventare prassi concreta per i monaci e per i monasteri. Ai laici si propose un’etica possibile per tutti; nei monasteri, invece, si potevano rivedere le comunità carismatiche dei primi tempi, quell’antica comunione dei poveri, quella "sola cosa" mancante. E ogni volta che, grazie a un carisma, si vuole tornare alla radicalità dei primi tempi del cristianesimo, si ripercorrono queste stesse dinamiche, e riappare la "soluzione" del doppio binario. Non capiamo l’economia occidentale medievale, la Riforma e poi l’economia capitalistica moderna senza questo "doppio binario" seguito dall’etica economica, che se da una parte diede vita all’immenso movimento del monachesimo e ai suoi enormi frutti di civiltà (e di economia), dall’altra ha fatto sì che l’etica economica – pubblica e privata – dell’Europa cristiana fosse molto, troppo simile a quella precedente il cristianesimo. Quanto c’è allora di etica romana e quanto di quella cristiana nello spirito moderno del capitalismo? Quale Europa sarebbe nata se ad affermarsi non fosse stata l’etica romana ma quella della comunione dei beni? Come sarebbe diventata l’economia occidentale se il cammello non fosse passato per quella ampia cruna?
l.bruni@lumsa.it