Il capitalismo non è, in primo luogo, un sistema economico di distribuzione di possesso, ma un sistema complessivo di cultura e di vita
Max Scheler, L’avvenire del capitalismo
Il pensiero economico di Karl Marx è ancora un passaggio obbligato per chi voglia indagare la natura sacrale del nostro capitalismo. Le sue domande – meno le sue risposte – sono ancora capaci di aprirci squarci profondi sull’economia del nostro tempo, farci intravedere orizzonti alti ancora troppo poco esplorati, soprattutto da quando, una trentina di anni fa, con il crollo del comunismo reale si pensò di far crollare anche Marx, come se un autore non sia eccedente rispetto alla traduzione storica del suo stesso pensiero.Sia Walter Benjamin sia Marx nella loro analisi della religione capitalistica attribuiscono un ruolo centrale ai prodotti: alle merci. Marx nel "Capitale" pone all’inizio del suo ragionamento il tema del carattere feticistico delle merci, uno dei pilastri metodologici della sua critica. Carattere feticistico, cioè la merce come feticcio.
Il feticcio è un elemento del mondo sacro, tipico degli stadi originari e primitivi della religiosità umana. È un oggetto inanimato, cui le comunità e le singole persone attribuiscono proprietà magiche o soprannaturali. La parola portoghese (feitiço) venne usata dai navigatori moderni per indicare amuleti e totem che trovavano nei popoli africani, e più tardi fu parzialmente estesa anche a oggetti religiosi di tipo sacrale, a immagini di forze soprannaturali. Quando Marx ricorre a questa espressione per caratterizzare le merci nel capitalismo, il suo riferimento alla religione era molto esplicito e intenzionale. Scriveva infatti: «Per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci». (Il capitale, Libro 1). Come dirà in una nota, citando l’economista italiano Ferdinando Galiani, «il valore è un rapporto tra persone, celato nel guscio di un rapporto tra merci».
Per Marx le merci sono feticci perché sono realtà inanimate che rimandano a qualcosa di vivo: ai rapporti tra persone. Nei sistemi di produzione passata, era immediato legare la merce al suo produttore, ma nel sistema capitalistico noi attribuiamo alle merci una esistenza autonoma, quasi magica o arcana. Ecco allora la definizione di merce che ci dà Marx: «A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. ... Appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare». Le merci acquistano dunque una esistenza propria rispetto agli uomini e alle donne che le hanno prodotte (e alle macchine e ai robot): qui sta quello che Marx chiama l’arcano. Inoltre, per Marx, è evidente che questo potere religioso si attiva solo nel capitalismo: «Appena ci rifugiamo in altre forme di produzione, scompare subito tutto il misticismo del mondo delle merci, tutto l’incantesimo e la stregoneria che circondano di nebbia i prodotti del lavoro sulla base della produzione di merci». Misticismo, incantesimo, stregoneria.
In realtà, se prendiamo sul serio l’immagine forte della merce come feticcio, ci accorgiamo subito che il nome più adatto per il capitalismo sarebbe idolatria, essendo i feticci gli abitanti del tipico ambiente sacro dei culti idolatrici, non delle religioni, tanto meno quella ebraico-cristiana. Ma che cos’è l’idolatria? E perché la Bibbia l’ha tanto combattuta, e i profeti in particolare ne hanno fatto il loro principale nemico (insieme ai falsi profeti)? Perché dietro la loro battaglia teologica ce n’è una antropologica che vi si aggiunge: tutte le volte che un uomo inizia ad adorare un oggetto, diventa meno uomo; perché quando qualcuno rappresenta Dio in oggetti o immagini, non riuscirà mai a eguagliare la sola immagine vera e lecita di Dio sulla terra: l’uomo e la donna, creati "a sua immagine". Tutte le altre immagini della divinità sono scarabocchi teologici e antropologici. Dietro la lotta anti-idolatrica c’è dunque un grande umanesimo.
Questa stessa battaglia ha portato la Bibbia a criticare radicalmente anche tutte le presenze "naturali" di Dio nel mondo, arrivando a cancellare dai suoi racconti anche le tracce di riti religiosi agricoli, come i canti di lutto per l’ultimo covone o per l’ultimo grappolo d’uva, dove i contadini, piangendo, chiedevano loro perdono di doverli "uccidere", e li pregavano di "risorgere" ancora nella nuova stagione. In alcune culture si inumava l’ultimo covone, si recitava il credo e si attendeva che "risorgesse". Non dobbiamo dimenticare che le prime intuizioni di una vita che potesse continuare oltre la morte naturale, gli esseri umani l’hanno imparata dal ciclo di morte-resurrezione dei campi. E non a caso molti padri della Chiesa e molti vescovi hanno continuato a recitare queste preghiere naturali e agricole, intrecciandole con quelle cristiane. Come in un Paternoster medio alto-tedesco del XIII secolo, citato da Ernesto de Martino, dove si legge che Cristo fu «seminato dal Creatore, germogliò, venne a maturazione, fu mietuto, legato in un covone, trasportato nell’aia, trebbiato, vagliato, macinato, chiuso nel forno, e infine dopo tre giorni tratto fuori e mangiato come pane». Non sarà perfetta teologia, ma è Padrenostro splendido e vero come la nostra gente povera delle campagne.
Ricordo ancora, bambino, i miei bisnonni recitare improbabili preghiere meticce di latino-dialetto-italiano, durante i tempi del raccolto o nei lutti. Non conoscevano i dogmi trinitari, avevano idee molto vaghe sulla differenza ontologica tra Gesù e la Madonna. Quando prendevano la comunione non sapevano nulla della "sostanza" e degli "accidenti". Ma sapevano che quel pane era pane, e quindi era già sacro perché da esso dipendeva la vita e la morte; e capivano che quel pane della Messa era un pane diverso, e per questo accostarsi alla comunione aveva per loro una solennità e una densità teologica che io prego sempre di ritrovare, un giorno, fosse anche l’ultimo. Certo, troveremo sempre teologi e scribi capaci di fini ragionamenti con in mano pezze d’appoggio in documenti del magistero per condannare i canti del lutto del covone e le preghiere dei miei nonni, per separarsi da quel mondo di ignoranza e di feticci. Ma se c’è un paradiso - e deve esserci, e i poveri lo devono abitare - insieme ai salmi degli angeli vi ritroveremo anche i canti della vendemmia e del raccolto, perché impastati di carne e di sangue, e quindi più veri di molti canti polifonici cantati senza poveri e senza dolore.
Ed ecco perché la stessa Bibbia, mentre ha combattuto duramente i riti e i simboli della fertilità insieme a quelli astrali, nelle sue pagine poetiche e sapienziali ci dona meravigliose parole sulla luna, le stelle, sui cieli "che narrano la gloria di Dio", sulla bellezza degli animali (Giobbe), sull’eros e sulla vita (Cantico). L’uomo biblico vede Dio (senza vederlo), lo sente nel tempio, lo ascolta nei profeti, lo vede e lo sente nell’uomo e nella donna, ma lo vede e lo sente anche nella "nube", nella "colonna di fuoco", nel fuoco di Elia, "nella leggera brezza del silenzio". Per affermare la sua vera diversità in un mondo dominato da una religione naturale, la Bibbia ha dovuto assolutizzare la sua critica alla dimensione religiosa delle cose, alla natura, agli alberi, alla creazione. Ma non l’ha mai cancellata, perché era vera. Credo che un profeta biblico avrebbe almeno capito la frase che Ismaele dice parlando del suo compagno idolatra, Queequeg, in Moby Dick, il capolavoro (anche teologico) di Melville: «Come potevo allora unirmi a questo selvaggio idolatra nell’adorazione del suo pezzo di legno? Ma che cos’è adorare? Credi davvero, Ismaele, che il magnanimo Dio del cielo e della terra - pagani e tutti quanti inclusi - possa mai essere geloso di un insignificante pezzo di legno nero? Impossibile! Allora, che cos’è adorare?». Non sarebbe possibile nessun dialogo vero con il mondo delle religioni animiste, né con l’induismo, se non pensassimo qualcosa di simile a quanto dice Ismaele.
Non a caso né per sbaglio il cattolicesimo ha sviluppato e coltivato una visione sacramentale della realtà, dove le "cose" possono contenere segni e messaggi che dicono qualcosa su Dio, senza essere Dio. L’incarnazione ha dato sostanza spirituale alla storia, e quindi alle sue cose, al lavoro umano, ai suoi manufatti. Quel giovane albero del bosco di Gerusalemme, lavorato da un falegname di patiboli, non poteva saperlo ma è entrato, con i chiodi, nel seno della Trinità, per sempre. Farebbe solo sorridere, se non fosse drammatico, vedere grandi difensori della fede autentica che oggi si scagliano contro l’idolatria (vedi Sinodo per l’Amazzonia) a motivo dei sincretismi che i poveri hanno sempre fatto e fanno, mentre non sono affatto turbati dall’idolatria del capitalismo, che in genere applaudono. In realtà, l’idolatria del capitalismo è molto più vicina, nello spirito, a quella combattuta dalla Bibbia. Perché, diversamente dai riti della campagna dei nostri antenati, che sentivano nelle cose la presenza vera dello stesso Dio, sotto le merci del nostro consumismo c’è lo stesso hevel (nulla) degli spaventapasseri-idoli criticati da Geremia.
Nel mondo della povertà, dentro le cose – nel pane, nel grano, nel vino, nelle piante, nei pochi oggetti... – si riesce a sentire il sacro buono anche perché attraverso quelle pochissime cose scorrevano la vita e la morte. Il nostro capitalismo moltiplica all’infinito le cose, ma non ne moltiplica il valore. Se possiedo un solo vestito buono, una sola penna buona, una sola bicicletta, un solo giocattolo e questi da uno diventano due, tre, dieci, il valore del primo vestito e della prima penna non aumentano ma si dimezzano, si riducono sempre più fino a scomparire se il numero (denominatore) diventa infinito. Il vestito buono ha un valore infinito proprio perché è unico. E quindi lo riparo, lo salvo, lo curo, e non lo "uso e getto". Nella povertà le cose hanno un grande valore, e la prima povertà dell’abbondanza è la scomparsa del valore dei beni che abbiamo, diventati tutti merci. Quando la vita ci occupa tutte le energie vitali per sopravvivere e far vivere i figli, spesso sappiamo anche pregare. E quando preghiamo usiamo solo le pochissime preghiere che ricordiamo e che amiamo perché ce li ha insegnate un genitore o una nonna, che hanno certificato la verità di quelle parole, non con la teologia ma con la loro carne donata. Nelle povertà anche le preghiere sono poche. Nessuna preghiera cristiana supera l’unico urlo inarticolato nell’altissima povertà del Golgota.
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