Oggi papa Francesco firmerà sulla tomba di san Francesco la sua nuova enciclica “Fratelli tutti” sulla fraternità e l’amicizia sociale.
Il mondo attende una direzione. L’intero pianeta soffre una pandemia che mette tutti i Paesi in difficoltà e per questo cerca nel pontefice chi lo aiuti a passare dalla fraternità del dolore a quella dell’amore. Abbiamo bisogno di chi ci aiuti a trovare un senso, in mezzo a tante leadership culturali e politiche che proprio in queste occasioni si dimostrano quanto mai inadeguate a rispondere alla nostra domanda più vera, quella di saper affrontare la tempesta essendo fino in fondo noi stessi. Se ne esce soltanto assieme: ecco perché l’idea della fraternità è quella necessaria.
Esistono però fratelli che si trattano con cortesia, ma sono distanti, freddi, non hanno a cuore la loro relazione. Per vivere la fratellanza e l’amicizia sociale dobbiamo dialogare ma, se dobbiamo dialogare, il dialogo deve essere vero. I buoni sentimenti non bastano. C’è bisogno che intervenga anche la ragione.
Non basta il negativo: “non litighiamo”, “non usiamo violenza”. Cosa significa davvero convivere pacificamente? Cos’è questa con–vivenza, questo “vivere insieme”? Il rischio dell’indifferentismo, cioè del “tutti differenti tutti uguali”, è gravissimo perché l’espressione “tutti differenti tutti uguali” dice che la diversità è insignificante, indifferente, ovvero che la differenza non vale più, non ha nessun significato. Ma, se così fosse, questo sarebbe un’enorme problema, perché ciascuno di noi ha bisogno di definire la propria diversità, dal momento che la nostra identità viene definita in quanto differente da quella degli altri: la relazione è possibile solo fra diversi.
Avere a cuore il dialogo fraterno, quindi, non è dire che non esiste tra noi alcuna differenza – affermazione che, tra l’altro, sarebbe una gravissima menzogna –, ma rendere questa diversità “con–vivente” con quella degli altri. Significa porre in essere delle relazioni in cui da una parte si mantiene la diversità e dall’altra, nello stesso tempo, si alimenta, attraverso questa diversità, una relazione di piena convivenza interculturale e intereligiosa.
È trovare ciò che accomuna nel “fra”, nell’ “inter”. Può sembrare una novità e invece è ciò che è già accaduto storicamente moltissime volte. È avvenuto tra cristiani e musulmani nei numerosi secoli e nelle tante nazioni in cui cristiani e musulmani convivevano pacificamente insieme, è accaduto tra cristiani di diverse confessioni dopo gli anni in cui i loro rapporti erano stati di “guerra religiosa”: inter– religiosità è lo sforzo per trovare degli spazi comuni in cui coltivare gli stessi valori – quello della pace o della responsabilità per la “casa comune” – anche se a partire da sensibilità diverse, da modi di vedere diversi.
Siamo fratelli: l’uno per l’altro e tutti insieme verso un nuovo inizio. Fratelli, in volontaria rivolta dell’uomo di fronte al male che insidia il mondo e che deriva dalle nostre fragilità. Parafrasando Ungaretti possiamo ricordare come il riconoscersi fratelli sia da sempre un modo per l’uomo di reagire al dolore, al pericolo, all’incertezza. Il Papa lo sa bene e per questo ha pensato di centrare la sua nuova Enciclica sulla fraternità, sul bisogno di trovare una radice comune per essere più forti del destino che mai come oggi pare avverso. Come i pesci più piccoli si radunano in branco per fingere di essere una creatura marina enorme che mette in fuga i predatori, così l’uomo riconoscendo una comune fraternità trova un senso nel dolore proprio quando è condiviso, portato insieme.
E, se siamo fratelli, siamo anche figli. Maria, dal Presepe di cui san Francesco è stato profeta, ci insegna l’importanza di sentirci figli e ci offre una maternità che non solo offre Dio, ma custodisce libero il creato: pastori, gente venuta da lontano, mercanti, artigiani , centurioni: persino oche, pecore e bovini, trovano riparo in Maria, nuova arca dell’alleanza.