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L’Italia non è l’unico Paese ad avere sempre meno camici bianchi in corsia. L’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ha stimato che entro il 2030 potrebbero mancare all’appello più di 10 milioni di professionisti della cura e dell’assistenza pubblica. Soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. Il problema non è nuovo. I primi campanelli di allarme risalgono agli inizi del 2000, quando l’idea di una disastrosa pandemia globale, come è stato il Covid-19, era relegata per lo più all’immaginario fantascientifico. Oggi tornano a suonare con l’impeto di un’emergenza solo accelerata dalle conseguenze sanitarie ed economiche del coronavirus. La posta in gioco è alta: ne va della salute (e della vita) di miliardi di persone.
La rivista scientifica “Lancet” ha pubblicato a maggio scorso le conclusioni di una ricerca realizzata su statistiche dell’Organizzazione mondiale per il lavoro (Ilo) relative al personale sanitario in servizio fino al 2019. Al mondo, è il risultato dello studio, mancano circa 6,4 milioni di medici, 30,6 milioni di infermieri e ostetriche, 3,3 milioni di odontoiatri e 2,9 milioni di farmacisti. Buchi enormi che, va precisato, quindici anni fa erano pure più vistosi. Sono poche le nazioni immuni a questa crisi. Ne soffre pesantemente il ricco Nordamerica, Canada e Stati Uniti, e pure l’Europa. L’ufficio regionale dell’Oms ha segnalato a settembre, durante la conferenza annuale tenuta a Tel Aviv, che il nodo rappresenta per l’intera regione, allargata anche all’Asia centrale, una “bomba ad orologeria” pronta ad esplodere.
Le rilevazioni dei tecnici di Copenaghen hanno inoltre messo in evidenza enormi disparità tra i 53 Paesi dell’area. In realtà come Turchia, Polonia, Romania, Spagna, Italia e Regno Unito, la proporzione tra il personale sanitario e il numero di abitanti è al di sotto della media. I l graduale invecchiamento della popolazione, che fa lievitare il fabbisogno di braccia dedicate alla cura, rappresenta solo un aspetto dell’arcano. Hans Henri P. Kluge, direttore dell’Oms per l’Europa, indica tra le cause della drammatica carenza di professionisti, il 40% dei quali è prossimo alla pensione, una lunga serie di criticità: inefficaci strategie di reclutamento, cattive condizioni di lavoro, difficoltosi avanzamenti di carriera, assenza di pianificazione strategica. Fattori, ha commentato, che «potrebbero potenzialmente far collassare la sanità pubblica » causando molte morti prevenibili. «Bisogna agire in fretta», ha chiesto, adottando «approcci efficaci, innovativi e intelligenti».
Bella sfida. Soprattutto in tempi di crisi economica. Il problema della fuga di camici bianchi dalle strutture pubbliche affonda le radici nella cronica mancanza di investimenti nel comparto. Uno tra gli esempi più significativi riguarda gli infermieri britannici, protagonisti proprio in questo periodo di uno sciopero senza precedenti: il primo in 106 anni di storia del Royal College of Nursing. La rivendicazione punta a ottenere un adeguamento all’inflazione degli stipendi, al momento compresi tra 27mila e 34mila sterline all’anno, che sono fermi ai livelli del 2010. Le statistiche della fondazione Nuffield, think tank specializzato in sanità, hanno evidenziato che negli ultimi dieci anni sono rimaste invariate (se non diminuite) le paghe di tutto il personale sanitario. Gli unici compensi in leggera crescita sono quelli del comparto privato che risultano, in ogni caso, essere superiori alla media.
Perché, è il ragionamento di molti operatori, continuare a scendere in corsia se il mercato del lavoro offre altre opportunità meglio remunerate e, magari, pure meno rischiosi? Dubbi legittimi soprattutto se aggravati dal peso di turni di lavoro massacranti. È così che si apre la falla attraverso cui i professionisti trovano la via d’uscita. Un buco nel sistema che, nel caso specifico del Regno Unito, è stato allargato dalla Brexit. Un rapporto della Camera dei Lord segnala che se Londra fosse rimasta nell’Unione Europea, oggi, avrebbe potuto contare su 4mila medici in più. L’esperienza della pandemia insegna, certo, che lo stress fisico ed emotivo causato da un lavoro in ospedale può costringere alle dimissioni anche chi non si pone un problema economico. È stato calcolato che, solo negli Stati Uniti, dopo il Covid-19 hanno appeso i camici al chiodo circa 460mila persone.
La carenza di personale sanitario è talmente acuta da aver innescato tra i governi più ricchi una sorta di “corsa all’ingaggio” nei Paesi in via di sviluppo. Lo Stato australiano di Victoria, per fare un esempio, offre un pacchetto da 10mila dollari, comprensivo di spese di viaggio, a chi, tra ostetriche, dentisti, psichiatri e farmacisti, decide di trasferirsi a Melbourne dall’estero per lavoro. Tra gli Stati più agguerriti c’è il Canada che promuove attraverso fiere ed eventi in India e Filippine le ghiotte opportunità di impiego in Nordamerica. Oltre allo stipendio viene spesso offerto un contribuito per le spese dei trasporti e della cura di eventuali bambini al seguito. Il Regno Unito offre addirittura uno sconto sulla tassa prevista per il rilascio del visto.
Un permesso di lavoro per tre anni si aggira tra le 625 e le 1.423 sterline. I professionisti della sanità pagano invece 232 sterline, cifra che per i cittadini di Turchia e Macedonia scende fino a 177 sterline. Che ne sarà, viene però da chiedersi, dei già fragili sistemi sanitari dell’Africa o dell’Asia privati in modo sempre più aggressivo dell’esperienza di cura del personale locale? L’emorragia di medici e infermieri ha raggiunto livelli preoccupanti in 47 Paesi del mondo. Trentatré di questi sono africani.
L’Oms ha più volte chiesto un approccio “etico” al reclutamento incoraggiando accordi di “prestito” negoziati a livello governativo. Come quello per la fornitura (a tempo determinato) di infermieri che il Ghana sta stipulando con Londra sul modello di quello già sottoscritto con Barbados. L’intelligenza artificiale e le applicazioni di tecnologia digitale sono spesso indicate tra le possibili soluzioni al problema. In Cornovaglia è stata attivata una sperimentazione che incoraggia i pazienti a testare in autonomia i valori del sangue, senza l’assistenza di alcun addetto, con modalità simili a quelle utilizzate nell’auto rilevazione del contagio da Covid-19. I risultati dell’iniziativa contribuiranno a mettere a punto un sistema digitale di controlli sanitari di routine che, questa è la speranza dell’National Health System, possa alleggerire l’enorme carico di lavoro dei medici di base.
È tuttavia difficile (se non impossibile) pensare di poter fare a meno del capitale umano in sanità. La 16esima Conferenza europea della salute pubblica, tenutasi a Berlino nel novembre 2022, ha rilanciato l’urgenza di attrarre, formare e trattenere in corsia il personale sanitario. Di investire nella professionalità di operatori a cui affidare il futuro dei sistemi pubblici di cura e assistenza perché da questi dipende l’accesso a servizi sicuri ed efficaci per tutti. Un nuovo corso organizzato dall’Oms e dall’Istituto Superiore di Sanità italiano, il primo nel suo genere, parla proprio di leader della salute collettiva.
Dirigenti capaci di porsi domande, di coniugare la scienza all’economia, di indirizzare la ricerca laddove è più urgente, di sviluppare talenti e network. La prima edizione dell’iniziativa, conclusasi a novembre, era aperta a un numero selezionato di persone; la prossima, prevista nell’autunno 2023, sarà aperta a tutti i professionisti che ne faranno richiesta. «Con una intera nuova generazione di leader pubblici in arrivo – ha commentato Kluge – il domani sembra più promettente ».