domenica 11 gennaio 2009
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Caro Direttore,i nostri occhi sono assuefatti alla vista delle carrette del mare gremite di disperati che, al termine di un viaggio via terra non meno terribile per raggiungere le coste della Libia, si avventurano nel Mediterraneo affidando la vita a criminali senza scrupoli e alla incerta clemenza delle onde. Non li chiamiamo più «clandestini» in un soprassalto di pudore ipocrita che non ce li avvicina di un passo. Uso il noi perché anch’io confesso che la pietà va di pari passo, anzi qualche volta viene sovrastata dall’insofferenza che sbotta: ma perché non se ne stanno a casa loro? Però di fronte a quanto accaduto a Zaher Rezai è impossibile trattenere la commozione. Questo ragazzo appena tredicenne che si avventura in una fuga lunga 6.000 chilometri dall’Afghanistan e che finisce col morire a Mestre, sbalzato il 10 dicembre dal cassone del Tir al quale si era legato dopo essere sceso da una nave proveniente dalla Grecia. Vicenda come tante; l’età non basta più per colpirci; almeno: non mi aveva scosso. Finché non ho letto la trascrizione delle poesie che aveva scritto e che gli hanno trovato addosso. Trascrivo pochi versi: «Se un giorno in esilio la morte deciderà di prendersi il mio corpo / Chi si occuperà della mia sepoltura, chi cucirà il mio sudario? / In un luogo alto sia deposta la mia bara / Così che il vento restituisca alla mia Patria il mio profumo». Il suo profumo difficilmente riuscirà a raggiungere l’Afghanistan, però adesso io lo sento ogni volta che sui giornali o in tv si raccontano tragedie di immigrati.

Giorgio Saviore

Siamo oramai nell’imminenza della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato – si celebrerà il 18 gennaio prossimo – alla quale Papa Benedetto XVI ha dedicato un messaggio, pubblicato nello scorso mese di agosto 2008. Un testo importante, dove il Santo Padre sollecitava le comunità cristiane a non rinunciare ad annunciare Cristo a chi arriva da altri Paesi senza conoscerlo. In quello stesso testo il Papa sollecitava a «vivere in pienezza l’amore fraterno senza distinzioni di sorta e senza discriminazioni, nella convinzione che è nostro prossimo chiunque ha bisogno di noi e noi possiamo aiutarlo (cfr "Deus caritas est", n. 15). L’insegnamento e l’esempio di san Paolo, umile-grande apostolo e migrante, evangelizzatore di popoli e culture, ci sproni a comprendere che l’esercizio della carità costituisce il culmine e la sintesi dell’intera vita cristiana». L’apertura del cuore e della mente invocate dal Papa impedisce di guardare ai migranti con l’occhio miope e gretto di chi misura tutto col metro del proprio tornaconto immediato. Tante volte abbiamo affrontato nelle nostre pagine – non esclusa questa – il tema delle migrazioni, stando attenti alla complessità delle questioni coinvolte e senza possibilmente cedere a scorciatoie ideologiche. Vogliamo essere accoglienti, sapendo peraltro che non è possibile spalancare le porte indiscriminatamente a tutti, se non si vuole far naufragare anche le migliori intenzioni. Ma come non provare un groppo in gola dinanzi alle struggenti parole di Zaher, frasi preziose e raffinate, scaturite da una vita che non è difficile immaginare durissima e dolorosa? Come non sentirci suoi fratelli in umanità, avvinti da un legame che supera ogni possibile fattore di divisione? Come non riconoscere che se non avvertiamo il "profumo" di Zaher e di quelli come lui, forse è perché il nostro "olfatto" si è atrofizzato e che meriterebbe curarlo con la medicina indicata dal Papa?
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