Giorgio Saviore
Siamo oramai nell’imminenza della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato – si celebrerà il 18 gennaio prossimo – alla quale Papa Benedetto XVI ha dedicato un messaggio, pubblicato nello scorso mese di agosto 2008. Un testo importante, dove il Santo Padre sollecitava le comunità cristiane a non rinunciare ad annunciare Cristo a chi arriva da altri Paesi senza conoscerlo. In quello stesso testo il Papa sollecitava a «vivere in pienezza l’amore fraterno senza distinzioni di sorta e senza discriminazioni, nella convinzione che è nostro prossimo chiunque ha bisogno di noi e noi possiamo aiutarlo (cfr "Deus caritas est", n. 15). L’insegnamento e l’esempio di san Paolo, umile-grande apostolo e migrante, evangelizzatore di popoli e culture, ci sproni a comprendere che l’esercizio della carità costituisce il culmine e la sintesi dell’intera vita cristiana». L’apertura del cuore e della mente invocate dal Papa impedisce di guardare ai migranti con l’occhio miope e gretto di chi misura tutto col metro del proprio tornaconto immediato. Tante volte abbiamo affrontato nelle nostre pagine – non esclusa questa – il tema delle migrazioni, stando attenti alla complessità delle questioni coinvolte e senza possibilmente cedere a scorciatoie ideologiche. Vogliamo essere accoglienti, sapendo peraltro che non è possibile spalancare le porte indiscriminatamente a tutti, se non si vuole far naufragare anche le migliori intenzioni. Ma come non provare un groppo in gola dinanzi alle struggenti parole di Zaher, frasi preziose e raffinate, scaturite da una vita che non è difficile immaginare durissima e dolorosa? Come non sentirci suoi fratelli in umanità, avvinti da un legame che supera ogni possibile fattore di divisione? Come non riconoscere che se non avvertiamo il "profumo" di Zaher e di quelli come lui, forse è perché il nostro "olfatto" si è atrofizzato e che meriterebbe curarlo con la medicina indicata dal Papa?
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