Il «pantano» di Joe Biden
giovedì 4 novembre 2021

Mancava soltanto la plateale sconfitta in Virginia nel fatale Super Tuesday, dove il repubblicano Greg Youngkin ha sbaragliato l’avversario democratico conquistando la poltrona di governatore, per segnare la difficoltà della presidenza Biden, il punto più basso dall’inizio del mandato. E non soltanto per la non prevista vittoria dello sfidante in uno Stato in cui alle presidenziali dello scorso anno Joe Biden aveva sorpassato Donald Trump di dieci punti, quanto per quell’effetto domino che già si scorge sul cammino del presidente: nel New Jersey – anche qui Biden aveva fatto man bassa di voti – è testa a testa fra l’italoamericano Jack Ciattarelli (un signornessuno, secondo i sondaggi della vigilia) e il governatore democratico in carica.

Un avviso di sfratto per Biden, secondo la compiaciuta stampa conservatrice e i media della destra repubblicana, che si appaia con lo smacco inflittogli da un tandem di senatori, Joe Manchin e Kyrsten Sinema, che hanno dapprima sabotato e poi fatto letteralmente a pezzi il suo piano di riforme economiche, sociali e ambientali. Ma attenzione, i due – già ribattezzati 'Manchinema' – sono democratici, non repubblicani.

Il che dice tutto. Ovvero: Joe Biden non riesce a tenere le briglie di un partito rissoso e diviso, che allinea punte estreme come Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez a manovratori esperti e moderati come Nancy Pelosi alla Camera. Risultato: divisi su (quasi) tutto, i dem perdono terreno e i sondaggi – dal 65% al 44% – confermano la caduta quasi verticale dell’approval, la popolarità del presidente. Il quale sconta il diffuso malessere popolare per l’aumento generalizzato dei prezzi e la battaglia non ancora vinta (ma c’è chi dice: malamente perduta) contro il Covid: solo il 13% degli americani confida in un ritorno alla normalità nei prossimi sei mesi. Di più: solo un terzo degli elettori democratici mostra di avere ancora grande fiducia nell’uomo della Casa Bianca.

E mentre già si parla di uno sfratto esecutivo nel 2024 e persino di un ritorno trionfale di 'The Donald', nelle stanze del Partito democratico già si respira l’aria pesante di una sconfitta annunciata su entrambi i fronti alle elezioni di medio termine dell’autunno del 2022. Un risultato non del tutto scontato, ma assolutamente possibile se non vi sarà un’inversione di rotta. E dire che sul piano internazionale, dopo la rovinosa uscita americana dall’Afghanistan (ora una vasta area che va dall’Iran al Pakistan, dalla Cina all’Uzbekistan, dal Turkmenistan e dal Tagikistan all’Iraq è sostanzialmente Yankee free), Biden aveva impresso una svolta decisa in direzione del multilateralismo.

Una svolta segnata anche dal recupero delle relazioni con l’Europa e con la Nato. Dal Medio Oriente al Mar Cinese Meridionale, dall’ex Cortina di Ferro a al Caucaso, dal-l’Iran a Golfo Persico per la prima volta dopo anni si era come sentito il ritorno di quella politica estera americana che sia Obama (un 'Re Tentenna', per molti versi) sia Trump (unilateralista per eccellenza) avevano lasciato in soffitta. Ma questo, nonostante le buone intenzioni e i sinceri proclami di intervento sull’ambiente appena espressi al G20 e a Glasgow, non basta a Biden per recuperare consensi in patria.

Non senza punte peraltro di bizzarra eterogenesi dei fini: mentre a Minneapolis un referendum bocciava la proposta di eliminare il dipartimento di polizia dopo la morte di George Floyd (metà dei dem erano d’accordo), a New York City veniva eletto con una valanga di voti un ex poliziotto afroamericano, il secondo nella storia dopo David Dinkins, democratico anche lui. Anche a Pittsburgh vince un sindaco afroamericano come afroamericana è la vicegovernatrice della Virginia, mentre a Boston trionfa l’asiatica Michelle Wu. È l’America che cambia e che i partiti non riescono più a rappresentare. «Quando domattina Joe Biden si sveglierà – ha twittato Donald Trump – qualcuno dovrà spiegargli che ora è il leader di un partito allo sfascio».

Diciamolo pure: tutta colpa di 'Sleepy Joe' Biden certamente non è. Nonostante la lunga esperienza come vicepresidente si è ritrovato fra le mani un’America disorientata e impaurita, incarognita dalla paura del futuro e divisa fra la nostalgia ribalda di Trump e la diffidenza nei confronti di un leader che in troppi considerano troppo indulgente verso le minoranze, le diversità, le classi disagiate e troppo poco amico dei ricchi. Ed è qui in questo vero e proprio quagmire – il «pantano» di kennediana memoria – che si trova oggi Joe Biden. Un guado fangoso iniziato in Afghanistan e proseguito con una guerra per bande in Campidoglio che rappresenta perfettamente l’America di oggi. Forse Biden ne uscirà. Forse l’esperienza e la fortuna l’aiuteranno. Ne ha gran bisogno, e lui lo sa. Anche perché i campanelli d’allarme non cessano più di tintinnare.

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