Il caso in un Liceo romano fatto (pare) esplodere da un professore, l’apprensione e l’appello di una madre, gli errori compiuti in altri Paesi (che, forse, si stanno correggendo) nell’avviare transizioni sessuali precoci e precipitose. Dico anche la mia sperando in scelte sagge e in un dialogo solido e rispettoso
Gentile direttore, leggo con apprensione di mamma il dibattito sulla “carriera alias”. Ho avuto il dono di accogliere il dolore di genitori che trovandosi di fronte al disagio del figlio con il proprio corpo, hanno visto automatizzare processi di transizione, con la neanche troppo velata minaccia “preferisci una figlia morta, o un figlio vivo?”. Guardo queste mamme e i loro figli e penso che si meritino più di ideologie che, invece di lasciare spazio a una discussione sana, di confronto serrato, dividono le persone in “cattive”, contrarie alla carriera alias, e “buone”, favorevoli.
«Non diremmo a un bambino vestito da Superman che ci saluta dalla cima di una scala che è davvero un supereroe e che quindi può volare. E non diremmo a una ragazza di nemmeno 50 kg che si vede grassa che può mettersi a dieta. Dunque, non diremmo a una ragazza che si sceglie un nome da maschio che è un maschio… ah no, questo purtroppo lo facciamo». Così una di queste mamme ci domandava perché si fa tanta fatica in Italia a raccontare le evidenze scientifiche in merito. Il servizio sanitario della Gran Bretagna ha ufficialmente sconsigliato di incoraggiare la transizione sociale dei minori (di cui la “carriera alias” è un passo) a causa dei danni risultanti da questa prassi, seguendo a ruota tutti i Paesi pionieri di questo approccio che lo stanno via via abbandonando perché si è rivelato fallimentare: quante denunce pervenute da “ex ragazzi” invitati a vivere la transizione senza un’accurata indagine ora adulti, che vorrebbero “tornare indietro”, ma si ritrovano ferite indelebili nella psiche e nella carne: chi restituirà a loro i seni o i genitali, o la capacità di avere un rapporto sessuale soddisfacente, o fertile? Migliaia di psichiatri, psicoterapeuti, medici in Europa stanno firmando un manifesto dell’Osservatorio internazionale “La Petite Sirène” ( https://www.observatoirepetitesirene.org/ ) che chiede un approccio che preservi l’integrità fisica e psichica di questi ragazzi: troppi a causa dell’influenza esercitata dai social e dalla propaganda sono stati indotti, credendo che il loro malessere fosse quello di trovarsi in un corpo sbagliato, a iniziare un percorso per cambiare sesso; in realtà il loro malessere continua ad essere lì, con l’aggiunta di nuove ferite. E gli adulti avrebbero dovuto proteggerli, anche da loro stessi.
Da mamma, grazie ad “Avvenire”, vorrei invocare un esercizio di civiltà e scienza: è ora di lasciare il derby fuori la porta per occuparci del benessere di questi nostri figli fragili, anche quando può significare dire “no”.
Maria Rachele Ruiu
Condivido pienamente, gentile signora Ruiu, il suo appello a un «esercizio di civiltà e scienza» anche a proposito della transessualità a partire dalla constatazione (non facile né scontata) della cosiddetta «incongruenza di genere». Questione riaperta dal caso di Marco, appena maggiorenne, nato sessualmente femminile, che si sente maschio e già da tre anni vive un percorso di verifica della sua condizione accompagnato da genitori e specialisti, e infine anche dalla sua scuola, un liceo romano. Questa giovane persona, come ha spiegato ieri, sabato 12 novembre, Luciano Moia sulle nostre pagine, è infatti protagonista anche di una “carriera alias” , è cioè riconosciuto dalla e nella sua scuola con un “nome di elezione”. In questo caso, appunto, Marco. Un insegnante avrebbe affrontato duramente Marco, cancellando il suo “nome di elezione” da un compito e richiamandolo bruscamente alla realtà del suo sesso di nascita. Uso il condizionale perché non ho certezza di quanto esattamente accaduto. Se le cose fossero andate così, sarei costernato anch’io. Se non c’è accordo per qualsiasi motivo con una decisione della scuola in cui si insegna, e il dissenso può esserci ed essere magari motivato, non è comunque concepibile che la diatriba si porti al livello di un plateale scontro in classe con un proprio allievo. E, nel caso specifico, nessuno può pretendere di saperne di più di una data vicenda anche medico-psicologica dell’interessato stesso, dei suoi genitori e di coloro che in scienza e coscienza lo stanno seguendo.
Vengo alle serie preoccupazioni a cui lei, signora Ruiu, dà voce. Come lei sa, sulle pagine di “Avvenire” abbiamo dato in più occasioni conto di errori, scelte avventate e veri e propri disastri compiuti in altre parti d’Europa e del mondo nell’affrontare con precipitazione e persino in età assai precoce casi di presunta «incongruenza di genere» (un tempo si parlava di «disforia»). Una condizione complicata e niente affatto frequente, ma nemmeno immaginaria. In Gran Bretagna come anche in Scandinavia pare infatti calibrarsi, dopo una stagione di infelice leggerezza, una linea più cauta e riflessiva nell’avviare i percorsi di cambiamento di sesso di giovani e giovanissime persone. Non siamo materia informe e plasmabile, non siamo la nostra apparenza, siamo uomini e donne, siamo realtà biologica e psicologica, siamo le nostre anime… Servono rispetto e delicatezza, e nessun delirio di onnipotenza individuale o di imposizione sociale. Nel caso romano, di cui è co-protagonista un transgender maggiorenne, sembra che il rischio di passi avventati sia stato considerato. E i genitori, a differenza di quanto è accaduto e ancora accade in altri Paesi anche quando ci sono di mezzo minorenni, sono stati e sono pienamente coinvolti. Bisogna davvero augurarsi assennatezza e prudenza, perché una “transizione” decisa e indotta senza soppesare ogni scelta, alcune irreversibili, genera solamente, come lei ricorda, ulteriore dolore e fatica di vivere.
Il collega Moia annotava, nel suo articolo, anche quanto rischioso e grave sia entrare in questo dibattito con slogan preconfezionati. E quanto lo sia giudicare, persino sulla base di una conoscenza sommaria e inesistente di quelle storie umane, situazioni sempre segnate da disagi fisici e relazionali intuibili e da immaginabili sofferenze interiori e spirituali. Sono d’accordo. Aggiungo solo di sperare che le cose in quella classe di liceo siano andate meno irosamente e disastrosamente di come appare dai resoconti circolati, perché nessun insegnante – questo mi permetto di dirlo, pur senza pregiudicare il professore coinvolto – dovrebbe mai permettersi atteggiamenti simili a quello descritto. Se le cose fossero andate in quel modo aspro e urtante, non si sarebbe trattato dell’esercizio del dovere educativo di saper dire anche “no” che lei, gentile lettrice, evoca a proposito dei genitori, ma di una deliberata e provocatoria mancanza di rispetto all’altro, sino a dirgli/dirle in sostanza non “tu sei quel che sei”, ma “tu sei quel che io vedo”. Sì, ci vuole scienza, civiltà, senso della misura e anche del proprio limite. E nessun infuocato derby.