Erano 26 milioni, riferiti ai confini attuali, gli italiani che il 17 marzo del 1861 entravano a far parte del neonato Regno d’Italia. Avevano un’aspettativa di vita (alla nascita) di circa 35 anni e una struttura per età decisamente giovane: metà della popolazione aveva non più di 23,8 anni (età mediana), il 4,2% superava il 65° compleanno e gli ultraottantenni erano solo lo 0,4% del totale. Ben diverso è lo scenario attuale. Le celebrazioni del 160° anniversario dell’Unità Nazionale, recentemente svoltesi con i toni dimessi che convengono a questa difficile fase storica, riguardano idealmente una popolazione che ha visto sostanzialmente raddoppiare la sua consistenza numerica (59 milioni), la durata della vita attesa (83 anni alla nascita) e l’età mediana dei residenti (47,2 anni). Siamo un popolo che ha ricevuto in eredità, e in parte ha direttamente vissuto, eventi e trasformazioni di immensa portata: dalle due guerre mondiali, ai rapidi e radicali cambiamenti di ordine economico, culturale, normativo e organizzativo che hanno interessato società, famiglie e individui, soprattutto nella seconda parte del secolo scorso.
Sul fronte della demografia del nostro Paese, il bilancio complessivo di 160 anni di storia può riassumersi in 142 milioni di nascite, mediamente 893mila ogni anno; 105 milioni di morti, 660mila in media; e in una perdita totale netta di 4 milioni di residenti a seguito dei movimenti migratori. Sono numeri che, oltre a testimoniare, con chiarezza e oggettività, un lungo percorso di crescita dalla metà dell’Ottocento al nuovo Millennio – dal Regno d’Italia agli oltre 70 anni della Repubblica – trovano valorizzazione come termine di confronto tra ieri e oggi; così da farci cogliere, nel segno e nell’intensità, i tratti di quel cambiamento che stiamo vivendo e che appare destinato a introdurre nuove importanti trasformazioni sulla consistenza e la struttura della popolazione italiana.
Il bilancio demografico del 2020 indica in 404mila il totale dei nati nel complesso del Paese, meno della metà degli 893mila che mediamente hanno segnato gli anni della nostra storia. Al tempo stesso, la drammatica contingenza legata a Covid-19 accredita, con 746 mila morti, un valore che supera di quasi 200mila unità il livello medio nel bilancio del passato. E se rispetto ai decessi il confronto attraverso il corrispondente tasso (morti per 1.000 abitanti) attenua la drammaticità del dato del 2020 (con 12,5 morti per ogni 1.000 abitanti a fronte dei 14,9 riferito al complesso di tutti gli anni precedenti), ben diverso appare il risultato riguardo alla natalità: la media di 20,1 nati per ogni 1.000 abitanti, ricavabile dal dato storico, diventa un modesto 6,8 per 1.000 se calcolata per il 2020.
Recentemente è poi emersa un’ulteriore novità che agisce da elemento di rottura con il passato: la lenta, ma continua, riduzione del numero di abitanti. Infatti, mentre nell’arco dei suoi primi 150 anni di Unità Nazionale la popolazione italiana aveva subito un calo numerico solo in corrispondenza del drammatico triennio 1916-1918, a partire dal bilancio anagrafico del 2014 il totale dei residenti in Italia – secondo i risultati dell’ultima ricostruzione elaborata da Istat e resa coerente con i più recenti dati censuari – è costantemente diminuito anno dopo anno, generando complessivamente la perdita di un milione e 88 mila unità, di cui 2/3 tra il 2014 e il 2019 – senza alcun alibi da Covid-19 – e ben 383mila unicamente nel 2020. Un anno, quest’ultimo, durante il quale al saldo naturale negativo (-342mila unità) si è aggiunto un dato dello stesso segno (41mila) riguardo ai movimenti di popolazione da e verso l’estero. È così comparso un deficit migratorio che ha dell’eccezionale; che nelle nostre statistiche manca dal lontano 1987.
Ossia in un anno a partire dal quale i movimenti da e per l’estero – sempre a saldo positivo fino al 2019 – hanno complessivamente garantito un apporto netto di 4 milioni e 415mila residenti e tradizionalmente compensato la presenza di saldi naturali sempre più negativi. In conclusione, l’idea che il bilancio demografico in occasione del 160° anniversario dell’Unità Nazionale abbia numeri che oggi raccontano una storia del tutto diversa dal passato, appare sempre più convincente e ben argomentata. Ci si rende agevolmente conto di come la debolezza della demografia italiana, già presente nell’epoca pre-Covid, sia andata fortemente accentuandosi per effetto della pandemia.
E ben sappiamo che questo effetto continuerà inevitabilmente a manifestarsi anche nel corso del 2021. Che fare dunque? L’impressione è che solo una rapida e incisiva azione rivolta in modo specifico alle famiglie e ai giovani potrà aiutarci a riprendere antichi sentieri verosimilmente meno rischiosi sul piano degli equilibri del sistema paese. Ben venga dunque la provvida mano del Next generation Eunell’operare in tal senso. E ben venga l’assegno unico e universale per ogni figlio. Ma c’è anche un’altra leva su cui andrebbe agito. Ci si riferisce, in particolare, al segmento di persone definibili come 'anziano attivo'. Ossia alla componente di popolazione che ha superato i confini anagrafici dell’età del lavoro, ma che mantiene, almeno entro certi limiti, abbondanti competenze, esperienze e capacità con cui potrebbe continuare a offrire un contributo al benessere collettivo; seppur attraverso convenienti modalità liberamente scelte.
D’altra parte i dati mostrano come i soggetti in età 65-74 siano oggi 6,8 milioni ed equivalgano a circa un residente ogni 9. Tra dieci anni questo stesso collettivo si sarà accresciuto di oltre un milione di unità e arriverà a comprendere un residente ogni 7-8. Chissà se nei piani della Next generation Euci sarà spazio per iniziative che sappiano tener conto anche di tali numeri e leggerne la potenzialità al servizio del Paese? Oggettivamente c’è da augurarselo.
Demografo, presidente dell’Istat