Signor direttore,
scrivo in riferimento all’editoriale di Giorgio Ferrari «Questa "pace" è un affare» ("Avvenire", 18 settembre 2020) a commento degli «accordi di Abramo» tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Parlando dei palestinesi, ci sono alcuni elementi che a un giornalista non dovrebbero sfuggire, se non altro quando tali elementi sono fondamentali per comprender a fondo il problema, nella fattispecie il conflitto israelo-palestinese.
Provate a dare una occhiata ai testi scolastici nella scuola dell’obbligo in Cisgiordania e nella striscia di Gaza, in particolare il che modo in cui è disegnata la Palestina, e verificate se Israele è presente. Provate a leggere gli articoli dello Statuto di Hamas e ponete attenzione a quale fine è riservata a tutti gli ebrei presenti in Palestina. Aggiungete i vitalizi che l’Autorità palestinese assegna ai terroristi autori di attentati contro civili israeliani (oltre alle intestazioni di scuole, piazze, strade...).
Aggiungete ancora le minacce che la guida suprema iraniana Khamenei, amica dei palestinesi, lancia sistematicamente contro Israele e il «cancro sionista». Ditemi, con questi presupposti, quale trattativa potrebbe avere luogo.
Ferrari scrive di un popolo che definisce «scialuppa fragile e abbandonata in questa tempesta che scuote il Medio Oriente», ma questa scialuppa l’unica azione che ha saputo esprimere è stata quella di lanciare razzi sulla popolazione civile di Israele, che miracolosamente hanno provocato soltanto alcuni feriti. E sapete perché? Per un motivo molto semplice: Israele fa di tutto per proteggere i propri cittadini, Hamas fa di tutto per provocare morti anche tra i propri cittadini al solo fine di accusare Israele di fronte all'opinione pubblica internazionale. Non so mi leggerà fino in fondo...
Gentile direttore,
nell’Accordo di Abramo abbiamo intanto capito, evocando la pagina biblica, chi è il montone del sacrificio: il popolo palestinese. Lo scrivo a proposito dell’editoriale di Giorgio Ferrari di venerdì 18 settembre. Non credo che possiamo definire l’atteggiamento della vittima sacrificale semplicemente «senza entusiasmo» a motivo di uno «spostamento di equilibri». Le parole sono importanti per parlare del destino di un popolo. Soprattutto di un popolo che si vede negati diritti fondamentali per la dignità delle persone: vita, lavoro, salute, movimento, pensiero, proprietà, solidarietà...
Quel popolo è davvero su una «scialuppa fragile» che sta affondando in un Mediterraneo dove nessuno va in soccorso. Resto poi dell’opinione che nulla che tocca Israele venga pensato a Washington e che l’accortezza e la pazienza, ricordate da Ferrari, non siano le virtù che conosciamo, ma il loro contrario: imprudenza ed impudenza. Qui si vuole chiudere una vertenza riguardante i diritti di un popolo con un risarcimento in denaro alle famiglie incarcerate nei "bantustan".
Quanto al tema del «contenimento dell’espansionismo iraniano», ricordo che dal 1979 l’Iran è sotto assedio e credo che le "ambizioni" di Teheran si riducano a poter anzitutto sopravvivere alle sanzioni con l’aiuto dei confratelli sciiti diffusi in Medio Oriente, perseguitati e temuti come sovversivi. Faremmo bene a riguadagnare rapidamente la posizione politica che fu di Obama: un Medio Oriente ove nessuno prevalga, ma le ambizioni di turchi, iraniani, arabi, israeliani si mantengano in un equilibrio di potenza e si riducano le interferenze occidentali, dando spazio e forza all’Onu. In tale contesto, un Israele riconosciuto e rassicurato potrebbe accelerare l’inevitabile e doverosa soluzione della questione palestinese: uno Stato binazionale in cui sia dato a ciascuno il suo e a tutti la pacifica convivenza.
Eppure, se è vero che la condizione della pace è fragile, è altrettanto vero che essa una convinzione contagiosa. E nel progredire della civiltà umana è sempre di più l’una e l’altra cosa: condizione e convinzione, fragile e contagiosa. Il lucido editoriale di Giorgio Ferrari su senso e contesto degli accordi arabo-israeliani propiziati dagli Usa di Donald Trump, a cui entrambi vi riferite, aiuta a rammentare che persino quando diventa l’«altro nome» degli affari (non tutti e non solo apprezzabili) il metodo della pace riesce a dare qualità e senso nuovo alla vita delle persone e delle comunità. Per questo tali processi hanno nemici molto determinati, a cominciare da chi ha imparato a fare degli affari l’«altro nome» di una redditizia guerra politica, economica e – ahinoi – anche religiosa. Per questo quegli stessi processi, soprattutto se improvvisi e spettacolari come gli «accordi di Abramo», vanno civilmente sorvegliati perché non siano il contrario di quel che dichiarano e non si rivelino, poi, un via libera a nuove e premeditate escalation. Questa, infatti, è la logica della guerra che riesce a infettare anche le pratiche di pace. Vittime, sempre, ne sono le donne, gli uomini e i loro figli, vittime ne sono i popoli. E più si è deboli e strumentalizzabili – e questo i palestinesi oggi lo sanno indubbiamente meglio degli israeliani – più si è vittime.
Insomma, è possibile addossare ogni torto a una sola parte e vedere esclusivamente le ragioni dell’altra, quella che il cuore ci porta magari a considerare più "giusta", ma anche un tale atteggiamento è partecipare alla guerra e allontana dalla generosa fatica di costruire di una via di uscita dalla tragedia. In casi estremi, e nel radicalizzarsi dei conflitti, per il cammino che ho appena descritto si arriva a pensare come premessa di pace il disconoscimento totale di uno dei contendenti e addirittura – tremo nello scriverlo – la «soluzione finale» ai suoi danni. È un mostruoso incubo che abbiamo già vissuto e che deve – deve! – averci insegnato una volta per tutte a rifiutare il sonno della ragione e della pietà che lo genera e lo fa crescere. Saper fare propri anche gli occhi dell’altro, e le sue ferite e le sue speranze, è il primo passo della pace. E non sopporta pregiudizi e finzioni. Continuo ogni giorno a chiedere a stesso, ai miei colleghi e a ogni lettore – anche casuale – di esserne capace, e degno.