martedì 27 gennaio 2009
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Caro Direttore, mi complimento con lei per il quotidiano «Avvenire», che è il mio giornale preferito. Mi dispiace, però, notare che anche in esso si trovano di tanto in tanto parole straniere al posto delle corrispondenti e non meno appropriate ed efficaci parole italiane. Per esempio, perché il francese «clochard» (da non tutti i lettori capito) al posto del conosciutissimo italiano «barbone»; o «sans papier», al posto di «senza documenti»? Anche questo non è più comprensibile ai lettori italiani? Non sono un fanatico nazionalista; però alla purezza della nostra lingua - che niente ha da invidiare ad altre - ci tengo.

Alberto Mastrantonio, Poliano (Fr)

Nella corrispondenza dei nostri lettori ricorre, costantemente, un giudizio negativo sulla massiva contaminazione dell’italiano da parte di altre lingue, contaminazione di cui i mass media (compreso il nostro) sarebbero corresponsabili. Personalmente, ritengo questi rilievi in grandissima parte condivisibili e credo che, potendo, vada evitato in campo giornalistico l’uso di parole straniere, anche in virtù della portata espressiva dell’italiano, lingua estremamente «ricca», semanticamente completa, a sua volta duttile, che però i giovani – ahimé – conoscono e frequentano sempre meno. In effetti, la mania dei termini allogeni dilaga un po’ in tutti gli ambiti: non solo quello popolare del calcio e dello sport, ma anche e soprattutto nella medicina, nella moda, nel turismo, nell’impresa, dove fra dirigenti e impiegati è ormai tutto un parlare – o straparlare – di «mission» (al posto di «missione aziendale»), di «location» (in luogo di «sede»), «break­even » («punto di pareggio»), di «turnover» e così via. L’effetto che ne sortisce rischia spesso di essere, più che professionale, umoristico. Ma a «colonizzarci» non sono solo gli anglismi, perché sempre più numerosi sono anche i francesismi (come nei casi da lei citati), gli spagnolismi, i russismi, ecc. Locuzioni diffuse e di moda ma il più delle volte inutili, avendo un loro equivalente in italiano. D’altra parte queste contaminazioni non devono sorprendere. Bisogna considerare che il mondo contemporaneo è un mondo ormai senza barriere, davvero globalizzato, mutevole e nomade, dove lingue, genti, costumi si mescolano e convivono in uno scenario multietnico. C’è poi il ruolo, omologante, dei nuovi mezzi di comunicazione di massa (specialmente internet, ma anche telefonini, sms, emotikon, videogiochi ecc.) che hanno creato un vero e proprio gergo peculiare, che è un gergo ibridato da diversi linguaggi, come una sorta di nuovo esperanto tecnologico, familiare alle nuove generazioni ma dove l’italiano ha uno spazio quasi nullo. In un simile contesto risulta impensabile qualsiasi pur nobile crociata in favore della lingua nazionale, qualsiasi iniziativa forzata che ricordi le celebri campagne di «italianizzazione» di mussoliniana memoria. Certo, la lingua è un presidio della comunicazione, la più ampia e generale, e soprattutto della civiltà (concetto forse più condiviso) di un popolo. Su ciò si deve fare un’adeguata riflessione e magari correre un po’ ai ripari. Cominciando dalle pagine dei giornali. Anche del nostro.

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