Ai leader europei è servito uno dei più lunghi e sofferti "conclavi", riuniti di persona a Bruxelles dopo mesi di incontri online, per varare un piano che, pur nelle linee generali disegnate ieri sera, può segnare una pagina storica della Ue. Ovviamente, si può guardare il bicchiere mezzo vuoto di un Recovery Fund ridimensionato dalla prospettazione iniziale della Commissione. I contributi da non rimborsare sono scesi da 500 a 390 miliardi, compensati dall’aumento della quota di prestiti a 360 miliardi, che rimangono a interessi bassissimi. Certo, è lecito biasimare lo spettacolo di un consesso di capi di Stato e di governo a lungo bloccato da veti e ripicche, con alcuni Paesi determinati a ridimensionare l’ammontare degli aiuti e a porre condizioni alla loro erogazione. È naturale pensare che un organismo di 27 Stati e 500 milioni di abitanti dovrebbe avere regole maggioritarie in modo da superare i "no" paralizzanti di quote minoritarie dei suoi componenti. Risulta plausibile deprecare gli egoismi nazionali di fronte alla pandemia che sta facendo vittime ancora oggi (centinaia nel tempo del vertice) e mettendo al tappeto intere economie, con un esercito di disoccupati e nuovi poveri che nei prossimi mesi busseranno alle porte dell’assistenza. Detto tutto questo, il meccanismo che dovrà ora mettersi in moto – le incertezze non sono tutte fugate – è da salutare positivamente sia per il piano in sé sia per quello che esso rappresenta.
I miliardi che andranno a sostenere i Paesi più colpiti dal virus non sono pochi, e anche la quota da non restituire rimane un unicum per la storia europea. Era stata semmai timida la proposta originaria, dato che si doveva mettere in conto un assottigliamento negoziale: i compromessi non si fanno che al ribasso. Quello che ancora più ha valore è la modalità del Recovery Fund, che prevede anche l’emissione di Recovery Bond, con garanzia nel Bilancio Ue, non una condivisione del fardello dei debiti passati come per gli agognati o famigerati (secondo i punti di vista) Eurobond, ma un investimento condiviso sul futuro per la ripresa post-Covid. Si tratta, come già più volte sottolineato, di un significativo passo verso una reale integrazione che si fa carico anche di una componente solidale tra Stati. Potremmo dire che con l’accettazione del piano è caduta una diga (e la metafora non è casuale essendo stata l’Olanda la più rigida oppositrice della prima versione del progetto). Altri piccoli o grandi "muri" si è però tentato di erigere. Due in particolare sono da considerare. Il primo riguarda il cosiddetto "freno" che qualche Paese membro potrà provare a tirare se ritenesse che i beneficiari del Fondo non attuano le riforme annunciate e concordate. Se non diventeranno un cappio a disposizione di chi ha in antipatia l’Italia e gli altri "Stati del Mediterraneo" e, quindi, un assist ai sovranisti del Sud da parte dei sovranisti del Nord – ricordiamo che come presidente dell’Eurogruppo l’olandese Jeroen Dijsselbloem disse in un’intervista che "non puoi spendere tutti i soldi per alcol e donne e poi chiedere aiuto" –, le cosiddette condizionalità sono un sensato argine a condotte "allegre" che in Europa non sono mancate. L’altro ostacolo a un’Unione più vicina ai suoi cittadini è quello messo in campo dai cosiddetti Paesi frugali – Olanda, Austria, Svezia, Danimarca e Finlandia – guidati da giovani leader per nulla, in apparenza almeno, sedotti da un’idea di Europa federale o comunque più unita e invece ben determinati a difendere i propri interessi nazionali pur all’interno di uno spazio comune.
Il discorso è analogo per il più consolidato gruppo di Visegrad – Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia –, ostile a fare proprie tutte le istanze europeiste, a partire da alcune specifiche garanzie dello Stato di diritto. Queste sono le spaccature più profonde, che vanno al di là del negoziato su 50 o 100 miliardi in più o in meno. Se prevale questo spirito, non verrà mai superata la procedura dell’unanimità che dà un enorme potere di veto anche a chi sostiene istanze del tutto residuali e non si avanzerà sulla via di una maggiore integrazione sovranazionale, restando bloccati alla trattativa tra governi come ultima istanza continentale.
È questo il quadro in cui il nostro Paese è riuscito a tenere alta la tensione negoziale e a spuntare un risultato economico che attualmente pare addirittura migliore di quanto ipotizzabile dai più ottimisti, con oltre 200 miliardi tra sovvenzioni e prestiti (se non ci saranno nuovi colpi di scena). Il premier Conte ha sostenuto le ragioni di un’Europa che avanza unita o si condanna a un piccolo cabotaggio di mezzi passi avanti e pieni passi indietro. Non sempre siamo stati virtuosi (quota 100 per le pensioni è nel mirino dei rigoristi), ma in una prospettiva più ampia che abbracci un futuro comune non è virtuosa nemmeno l’Olanda che sfrutta fino al limite del 'paradiso fiscale' le maglie larghe delle regole Ue in tema di tasse. Ci sarà tempo per aprire questo dossier, e anche altri, se dalla crisi della pandemia l’Europa uscirà più forte e coesa anche agli occhi dei suoi abitanti, i veri e unici giudici delle mosse di leader che forse mancano di visione e coraggio, incapaci di superare gli stretti orizzonti delle prossime elezioni nazionali.