Ci sono leggi chiare (poche), che si capisce subito cosa vogliono dire. Ci sono leggi oscure, che neanche a leggerle tante volte si è sicuri di capirle. Ci sono leggi bianche (o nere) e leggi grigie. Sulle leggi bianche o nere si forma rapidamente una lettura condivisa. Sulle leggi grigie le divergenze incombono sempre. La legge sulle Dat (le Disposizioni anticipate di trattamento), che oggi entra in vigore, è una legge grigia. La lettura delle leggi è affare di tutti. Ma quando fra i cittadini insorgono conflitti, ciascuno leggendo le cose a modo suo fino alla zuffa, si va da un giudice. I giudici, soggetti 'solo' alla legge, ne sono i lettori ufficiali designati. E devono per forza dire se la soluzione è bianca o nera. Ma siccome il grigio è grigio, sul tavolo irrompe l’armamentario dell’interpretazione. Allora si distingue quella letterale da quella teleologica, e poi c’è quella sistematica, e quella evolutiva, e quella 'costituzionalmente orientata' (trascurando altre varianti creative). A uniformare le letture ci sarebbe la Cassazione; ma anche lì dentro abitano lettori diversamente leggenti, sicché d’una legge grigia può uscire nella stessa settimana una lettura bianca e una lettura nera. Non faccio ironie: è un lavoro difficile. Penso però che se nella società intera si formano e solidificano 'opinioni giuridiche comuni' possono avere il loro peso.
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Perché dico questo, a proposito delle Dat? Perché nella fase di discussione e confezione della legge si sono enfatizzate, sui due versanti, tesi e valutazioni che poi, a cose fatte, possono generare effetti contrari agli scopi ripromessi. Mi spiego: quelli che volevano a tutti i costi forzare l’approvazione delle Dat si sono sgolati a dire che l’eutanasia non c’entrava, che si trattava di rispetto del diritto soggettivo di dare o negare consenso alle terapie, senza subire le decisioni altrui: macché suicidi, macché abbandoni. Quelli che non volevano le Dat si sono sbracciati a dire che con quel testo si abbandonavano i malati alla morte, e persino si collaborava alla loro soppressione, anche per fame e sete. Cioè l’eutanasia, suicidio assistito e derive peggiori. Adesso che la legge è legge, i suoi fan potrebbero avere buon gioco a sostenerne una lettura davvero eutanasica, proprio allegando gli argomenti degli avversari: «L’avete detto voi, e continuate a dirlo, che il testo di questa legge ammette l’eutanasia. Dunque, adesso che vogliamo praticarla, essendo legge, di che cosa ci incolpate?». Viceversa, il fronte contrario può dire: «Ci avete riempito le orecchie di assicurazioni e scongiuri che questa legge non introduce affatto l’eutanasia. E allora, applichiamola nel verso giusto, in difesa e rispetto della vita umana e della umanità del morire». Di tutte le sigle interpretative, quella che mi è sempre parsa corretta, per ogni norma, è quella che amo chiamare 'lettura onesta', senza forzature. Ma di lì in poi, potendo, ne cerco la sua compatibile versione indirizzata al bene, piuttosto che al male. E il peggio sarebbe che a furia di gridare che questa legge distrugge l’alleanza terapeutica e sdogana l’eutanasia e trasformerà gli ospedali in pre-cimiteri, la gente se ne convinca e la giurisprudenza segua l’evoluzione. Se invece si valorizza che l’incontro tra l’ autonomia decisionale del paziente (mi piacerebbe chiamarla 'libertà responsabile'; ma ora metto in corsivo le parole della legge) e la competenza , l’autonomia professionale e la responsabilità del medico si chiama ' relazione di cura e di fiducia ' si potrà recuperare nella pianificazione condivisa delle cure quella 'alleanza terapeutica' non più nominata e a rischio di smarrimento.
Il bianco può risaltare sul grigio, se sta in forte luce che alle Dat compete rispetto ma non meccanica obbedienza, (rifiutabile quando sono incongrue). E agli ospedali è chiesto di attuare « i princìpi » della legge; e i princìpi, scritti in cima, se le parole non si fanno bugiarde, sono «il diritto alla vita, alla salute, alla dignità» prima di tutto; sicché il problema dell’obiezione di coscienza potrebbe risolversi da sé in una implicita ammissione ' de plano', non solo per il medico e la sua équipe ma anche per gli ospedali cattolici (e non solo) che tengono a cuore la cura dei malati come missione evangelica di carità, e non possono certamente cooperare a pratiche eutanasiche. I princìpi infatti comprendono sì l’ autodeterminazione della persona, ma questa si esprime nel consenso libero e informato, non certo in prenotazione di gesti di morte o d’abbandono, che l’ospedale 'coscienzioso' non potrebbe mai accogliere. Di obiezione implicita si è parlato del resto anche prima del varo della legge; e dalla sede ministeriale è venuta assicurazione di interventi intesi a far salve le ragioni di coscienza. Per medici e per ospedali. Ragioni che del resto hanno per loro natura una protezione di rango costituzionale, e internazionale, a livello dei 'diritti umani'.
Dunque schiarire la legge grigia è possibile. Non le si faccia dire, ora che c’è, il peggio di ciò che non dice. Se c’è una lettura in bonam partem vediamo come si può tenerla a guida nel suo massimo grado. Qualche esempio, se occorre. Uno dei punti più scottanti di potenziale contrasto fra l’autodeterminazione del paziente e la coscienza del medico è l’interruzione di terapie di sostentamento vitale (ivi ricondotte ex lege anche l’idratazione e l’alimentazione). Poniamo che ciò venga richiesto da un paziente vigile, competente, ma non in grado di togliere da sé il sostegno che lo tiene in vita; e che al medico sia chiesto di 'staccare la spina'; e che in coscienza non possa obbedire. Dice la legge che il malato può dare o negare consenso sia prima (rifiuto, a costo di morire) sia dopo (rinuncia, sapendo di farsi morire): ma mentre nel primo caso il medico è inerte, nel secondo gli è chiesta un’azione da cui deriva la morte. Una sentenza del luglio 2007 del Gup di Roma l’ha chiamato omicidio del consenziente, pur scriminando l’autore. Una risoluzione del Comitato nazionale per la bioetica dell’ottobre 2008 ha stabilito che il medico (come pure la sua équipe) ha il «diritto di astenersi da simili condotte». Penso che ciò resti un punto fermo, dato che la legge esclude l’esigibilità di condotte contrarie a legge, a deontologia, a clinica assistenziale. L’obiezione di coscienza qui è in re ipsa. Ci mancherebbe altro, scriminato l’omicidio del consenziente, di incriminare il 'mancato omicidio'. Ciò vale naturalmente per tutto l’ospedale, per ogni operatore.
Altro esempio. Ha commosso il mondo la vicenda di Inès in Francia, cui la 'giustizia' persino della Cedu (la Corte europea dei diritti umani) ha negato le cure. In Italia non potrebbe finire così, perché il rifiuto delle terapie invocate a costo di morte non può mai provenire dai medici, il cui soccorso si ferma solo alla soglia del trattamento sproporzionato e inutile (accanimento), e nei soli casi terminali. Si eviti dunque di lasciar prevalere, ora che la legge va in vigore fatta così (e non piace), le letture interpretative in malam partem . Si legga con qualche onesto coraggio, e non a guisa di sconfitti senza risorse. Questo non vuol dire far pace con i suoi aspetti negativi da correggere; non vuol dire rassegnarsi alla sua nebbia per restare nella nebbia. Ma diradarla, frattanto, più che si può, tenendo i fari accesi sulla dignità delle persone umane e della vita. Restando fedeli alla coscienza e alla carità del Vangelo, come linee-guida dell’agire per il bene. Augurandoci che chi dovrà risolvere i conflitti, guidare nella nebbia, decidendo il giusto o ciò che par giusto, non vada a sbattere per anemia etica o per difetto d’amore. E senza che l’ideologia ammiccante alle preferenze funeree la renda una guida 'in stato di ebbrezza'.