Gentile direttore,
ho letto la sua risposta al lettore che criticava come atto di «censura bella e buona» la mia decisione di far rimuovere i manifesti contro l’uso della Ru486 fatti affiggere a Bergamo dall’Associazione Pro Vita & Famiglia. Nella sostanza lei conveniva, dispiacendosi anzi che io abbia potuto compiere un simile errore. Mi capita ovviamente di sbagliare, ma non credo in questa occasione. Soprattutto non credo si possa parlare di censura. La ragione, semplice, che mi ha spinto a chiedere la rimozione dei manifesti è che il loro contenuto – l’affermazione secondo cui la pillola Ru486 «mette a rischio la salute e la vita delle donne», accompagnata dallo slogan «Prenderesti mai del veleno?» e dall’immagine di una donna stesa (morta?) dopo aver addentato una mela – costituisce una comunicazione distorsiva della realtà, non suffragata da evidenze fattuali e volta a ingenerare allarme per scoraggiare l’uso del medesimo prodotto. La Ru486 è un medicinale approvato dall’Ema e dall’Aifa, giudicato quindi sicuro dalle massime autorità in materia, per quanto – come tutti i farmaci – non privo di controindicazioni e di ef- fetti collaterali. Se ne può criticare l’uso e in particolare la recente scelta – contenuta nelle linee guida diramate ad agosto dal Ministero della Sanità e approvata dal Consiglio Superiore di Sanità – di consentirne la somministrazione in day hospital, negli ambulatori o nei consultori. È noto che all’opinione di chi sottolinea la positività di questa decisione si contrappone quella di chi ritiene che in questo modo si riporti l’interruzione di gravidanza in una sfera del tutto privata, rendendo impossibile la necessaria sorveglianza sanitaria. Sono argomenti tutt’altro che trascurabili. Ma non se ne può fare pretesto per una comunicazione fallace. Ho fatto quindi, ritengo, il mio dovere. Mentre non credo, se mi è concesso, che le varie associazioni “pro-vita” facciano pienamente il loro quando per affermare un legittimo punto di vista scelgono di puntare su una comunicazione strumentalmente allarmistica. La mia impressione – viste le reazioni che hanno accompagnato la campagna e la mia decisione – è che questa strategia possa anzi risultare molto controproducente. Nel ricambiare le espressioni di stima, la ringrazio per l’ospitalità.
Giorgio Gori Sindaco di Bergamo
La Ru486, gentile sindaco, non è un qualunque farmaco, è lo strumento con cui si realizza l’aborto chimico. Ed è lecito discuterne proprio per la sua natura e per i risvolti etici che il suo consumo comporta. Questa “pillola” – che, ripeto, non è un farmaco come gli altri e non è nemmeno un anticoncezionale – è stata approvata da Ema e Aifa? Ovvio, visto che è regolarmente in commercio. E da quando in qua questo significa che non si può più parlare degli effetti diretti e indiretti che genera la somministrazione ( tout court o in un determinato modo) di un preparato pur “autorizzato”? Ema e Aifa basano le loro decisioni su documentazione scientifica, e anche questo è ovvio. Ma le loro deliberazioni non escludono la libertà di approfondimento, di critica e, comunque, di civile espressione. Senza contare che entrambe le Agenzie, quella europea e quella italiana, sono tornate più di una volta sui loro passi cambiando le regole per la commercializzazione e l’assunzione di determinati farmaci, e talvolta ritirandoli dal commercio perché gli effetti avversi si erano mostrati gravi. Ebbene, ricordo a lei e a tutti che nel mondo sono stati censiti, anno dopo anno, decine e decine di casi di morte di donne che avevano assunto la Ru486. Sono casi dei quali “Avvenire” ha via via fornito documentazione. Mi rendo conto che può esserle sfuggito visto che tra i principali giornali del nostro Paese siamo gli unici ad avere scritto, con chiarezza, senza sottovalutazioni e senza esagerazioni, di quest’aspetto dell’aborto chimico tramite Ru486. Un aspetto che si somma a quello che lei giustamente richiama, e che anche noi abbiamo sottolineato con forza, della deliberata «solitudine della donna», lasciata sola nella comunque drammatica esperienza dello “scarto” di una figlia o di un figlio. Ma questa insufficienza informativa, mi permetto di dire, è la dimostrazione che tra i problemi del mondo dei mass media non ci sono solo post-verità, fatti alternativi, e altre mistificazioni o bufale, bensì anche i fatti e le persone rimossi, resi invisibili. Potrei fare un elenco niente affatto breve e, non a caso, coincidente con molte della campagne informative condotte da questo giornale, col nostro stile, che non prevede fuochi d’artificio, ma solidità di dati e prossimità totale con le vittime (certe o possibili). Qui mi limito a ricordare alcuni “titoli”: azzardo (legale e illegale), ecoreati o reati ecomafiosi (anche quando una legge non c’era), caporalato, pedofilia e pedopornografia, diritti delle persone in stato di minima coscienza e delle loro famiglie, immigrazione clandestinizzata (quanta ingiustizia si può fare in nome di leggi forzate, aggirate, sbagliate)... Ma torniamo al manifesto di Pro Vita & Famiglia, rimosso a Bergamo come in altre città. Dice cose e dà allarmi “sgradevoli”, può non piacere per la sintesi che propone (e a me, da questo punto di vista, non piace), ma non afferma falsità. La Ru486 è oggettivamente un veleno. Che può far male anche alla donna che la assume, come episodi avvenuti nel mondo e pure in Italia testimoniano (non abbastanza per le Agenzie), e purtroppo sarà sempre meno facile analizzare questo aspetto per la progressiva “liberalizzazione” e “privatizzazione” dell’uso del prodotto (qui da noi decisa, dapprima, da alcune Regioni e, ora, suggerita pure dalle Linee guida ministeriali). Ho scritto che «può far male anche alla donna» che sceglie l’aborto, perché prima di tutto è certo che fa male al bimbo non nato. Perché «uccide il figlio nel grembo». L’unica frase del manifesto che lei, sindaco Gori, non cita nella lettera, e che – me ne rendo conto – è durissima da scrivere o anche solo da dire, ma che è vera. Il bambino o la bambina che non nasceranno più sono in una condizione nella quale ognuno di noi è stato. E non sono “nulla”. No, non ci si può dimenticare di loro quando si parla di aborto in qualunque forma. Così come non ci si può mai dimenticare della donna, e della sua vita. Eppure succede. Ieri contava spesso poco o nulla la donna e madre, oggi sempre più frequentemente ci si dimentica della creatura abortita. E io credo che questa “dimenticanza” sia motivo di un allarme serissimo, che nessuno – laico o credente, pro-vita o pro-scelta – dovrebbe pensare di poter liquidare come allarmismo. Sono sicuro che lei, gentile sindaco, che so attento e sensibile, ci rifletterà. Per questo, ho scritto che non è giusto togliere dai muri manifesti di duro impatto e certamente discutibili. Discutiamone, appunto, Discutiamone, finalmente, nel luogo comunedel pubblico ascolto reciproco e lontano dai luoghi comuni delle invettive e delle censure. Discutiamone con civiltà e urgenza, discutiamone per civiltà. Discutiamone, e rendiamoci conto che del dolente tema dell’aborto e dei mezzi con cui esso si realizza si tende ormai a parlare il meno possibile, quasi solo per intimare di “non disturbare il manovratore” o di rispettare il “diritto all’aborto”. Che anche nella legge 194 non esiste in quanto tale, se non come tragico “servizio pubblico” (non privato!) da erogare quando nello scontro tra il diritto di vita sana (fisica e psichica) di colei-che-è-già-nata, la donna in gravidanza, e il diritto di colui/colei-che-non-è-nato/a, la nuova vita nel grembo, la norma consente di far prevalere a certe condizioni il primo. Controproducente su tutto ciò è solo il silenzio presuntuoso o indifferente, oppure il vociare iroso che accompagna e segue ogni “strappo” di manifesti.