Che si parli in un vertice politico internazionale di sviluppo dell’Africa, di cooperazione non predatoria, di programmi pluriennali di sostegno, è un fatto positivo. Che si parli di soluzioni win-win nella produzione di energia pulita, pure. Il vertice transmediterraneo di Roma ha discusso temi rilevanti, con la partecipazione di diciannove governi della regione e di varie organizzazioni internazionali, seppure non di Francia e Spagna, palesando un’assunzione d’iniziativa da parte italiana.
Ma il nesso tra sviluppo locale e contenimento dei flussi migratori, obiettivo politico prioritario della conferenza, richiede un serio approfondimento. A meno di far passare come una politica per lo sviluppo il sostegno economico e militare a governi autoritari, affinché blocchino con le maniere forti le partenze, o più facilmente i transiti delle persone in fuga. L’idea che mandando aiuti in Africa, in un quadro di accordi intergovernativi, si possano arrestare o anche solo contenere le partenze, assomiglia a una versione politicamente più raffinata dello slogan “aiutiamoli a casa loro”.
Purtroppo però siamo nel classico caso in cui le proposte semplici non sono in grado di risolvere problemi complessi. Tre serie contraddizioni si frappongono tra l’aiuto allo sviluppo e il rallentamento dell’emigrazione. La prima investe i tempi necessari per ottenere l’effetto auspicato. Fermo restando che l’immigrazione di lavoratori è un’esigenza dei Paesi riceventi, e di questo il governo Meloni appare oggi consapevole, il problema riguarderebbe i flussi spontanei, attribuiti alla povertà dei luoghi di origine. Secondo le ricerche sull’argomento però in una prima non breve fase l’innesco di un processo di sviluppo fa aumentare e non diminuire la propensione a emigrare. Aumenta infatti la quota di popolazione che può disporre delle risorse necessarie per partire, poiché emigrare è costoso.
Con l’avvio dello sviluppo, e le sperequazioni sociali che questo comporta, crescono anche le aspirazioni a una vita migliore, senza che localmente si possano realizzare nel breve periodo le condizioni necessarie. Se progredisce l’istruzione, aumenta anche l’emigrazione, poiché è dimostrato che le persone istruite emigrano di più di quelle meno istruite. Soltanto dopo diversi anni di sviluppo sostenuto e stabile l’emigrazione rallenta, sempre che non scoppi una guerra o una campagna di repressione. La seconda contraddizione si lega alla prima: le migrazioni sono processi selettivi.
Non vengono, mediamente, dai Paesi più poveri del mondo (il primo è l’India, oggi in rapido sviluppo, seguita da Messico, Russia e Cina). Non vengono, mediamente, dalle classi più povere dei rispettivi Paesi. Non vengono, mediamente, dalle campagne sperdute o dalle baraccopoli. Se quindi gli aiuti andassero veramente in soccorso dei più poveri, come sarebbe doveroso, non inciderebbero sulla platea dei candidati all’emigrazione, e potrebbero persino aumentarla. Certo, le guerre sparigliano le carte e hanno un impatto orribilmente democratico: quando arrivano, fuggono tutti quanti riescono a partire, trovandosi sulla linea del fronte o appartenendo a minoranze perseguitate. Persino in questo caso comunque i più poveri rischiano di rimanere indietro. Tuttavia, gli aiuti non fermerebbero gli spostamenti.
La terza contraddizione si combina con le precedenti. Ben più degli aiuti pubblici allo sviluppo, sono gli emigranti ad aiutare casa loro, inviando ingenti flussi di rimesse, che persino la pandemia da Covid-19 ha soltanto scalfito. Stiamo parlando di cifre stimate dalla Banca Mondiale in 802 miliardi di dollari per il 2022 e in 842 per il 2023, senza contare quelle che sfuggono ai canali ufficiali. Le rimesse arrivano direttamente nelle mani dei familiari che le ricevono, aiutandoli a migliorare l’alimentazione, le cure mediche, la qualità delle abitazioni, gli investimenti nell’istruzione dei figli. Ma inaspriscono anche le disuguaglianze, tra chi le riceve e chi non le riceve, inducendo altri a partire. Una politica di sviluppo capace di sostituire con la ricchezza prodotta in loco i vantaggi delle rimesse richiede investimenti massicci, prolungati, diffusi.
Di nuovo, avrebbe bisogno di anni, e non pochi. Ecco dunque l’ambiguità della politica dello scambio tra aiuto allo sviluppo e controllo delle partenze. Se persegue un’efficacia immediata nel contrasto degli arrivi, è fatalmente indotta a finanziare misure repressive, anche brutali, come in Libia, in Turchia, in Tunisia. Se invece intende sinceramente promuovere lo sviluppo dei paesi di origine, deve distendersi nel tempo e accettare di non poter fermare per diversi anni la propensione a emigrare. Non è difficile intuire in quale direzione intenda andare il governo Meloni.