Il 2020 si chiude con la legalizzazione dell’aborto in Argentina, dove il Senato ha appena approvato la legge che depenalizza le interruzioni volontarie di gravidanza fino a 14 settimane, con accesso alle ragazzine a partire dai 13 anni e con piena possibilità di dare il proprio consenso dai 16 anni.
Come sempre accade quando è in gioco la regolamentazione dell’aborto, il dibattito politico è stato più che acceso e la voce della Chiesa, scesa in campo a difesa della vita nascente e della maternità, è risuonata chiara. Ma hanno fatto discutere, e non poco, anche la recente depenalizzazione del suicidio assistito in Austria, l’introduzione dell’eutanasia in Spagna e l’ampliamento della legge canadese all’accesso alla morte medicalmente assistita (sia suicidio sia eutanasia): tutti provvedimenti che hanno fatto il loro corso nonostante gli sconvolgimenti della pandemia che avrebbero dovuto imporre ben altre priorità. E non potrebbe essere più stridente l’accostamento con la contemporanea corsa verso la vaccinazione planetaria, un immane sforzo collettivo allo scopo universalmente condiviso di salvare il maggior numero possibile di vite umane.
In prima battuta si potrebbe interpretare tutto questo leggendolo ancora una volta con le lenti dei diritti individuali esigibili, che includerebbero anche quelli alla cura e alla prevenzione dell’infezione di Covid-19. Ma sarebbe una lettura parziale, che accentua la contrapposizione fra la libera scelta del singolo e le politiche di salute pubblica, creando il paradosso per cui ci sarebbe al tempo stesso libertà di abortire e di suicidarsi per i singoli e obbligo di non ammalarsi per la collettività: l’obbligatorietà delle vaccinazioni non è infatti esclusa, almeno per alcune categorie professionali, e d’altra parte abbiamo imparato a conoscere bene le sanzioni per chi non si adegua alle misure anti-Covid.
Va però osservato che le citate nuove leggi sono nate tutte prima dell’esplosione della pandemia, e sono l’esito di un processo di secolarizzazione avviato nel secolo scorso, che sarebbe ingenuo pensare di fermare con alcuni mesi di contagio, pur mondiale. Eppure il nuovo coronavirus ha imposto il concetto di salute pubblica: una novità non certo per addetti ai lavori e studiosi, ma nel sentire comune e, anche, politico. Senza una forte e chiara dimensione solidale le politiche di salute pubblica si trasformerebbero in un occhiuto strumento di potere e di controllo della popolazione.
Covid-19 ci ha mostrato, per di più, che le relazioni interpersonali sono, sì, il principale mezzo di contagio, ma al tempo stesso l’unico modo di uscire dall’emergenza: sono concausa del problema, ma insieme la soluzione, purché si ammetta il bisogno che abbiamo gli uni degli altri. L’idea di fondo delle politiche di salute pubblica è quindi che la presa in carico di ogni singolo si traduce anche nella cura della collettività, dove per collettività non si intende semplicemente la sommatoria degli individui, ma la comunità nei suoi componenti e nella rete solidale delle relazioni umane. È su questa trama che si possono e si devono definire nuovi modelli sanitari, disegnati sulle caratteristiche dei territori e delle popolazioni che li abitano. Non sembra azzardato ipotizzare che proprio un modello centrato sull’autodeterminazione individuale e sul rapporto medico-paziente ci abbia fatto sottovalutare l’importanza della medicina territoriale e di comunità, e dei servizi socio sanitari di prossimità, indispensabili invece per fronteggiare Covid-19.
La pandemia non ha il potere di farci "tornare indietro", ma di entrare nella nuova normalità avendo fatto tesoro del dramma che ancora stiamo vivendo, con una nuova "cassetta degli attrezzi" utile per ricostruire le comunità umane a partire dalla nostra necessaria interdipendenza.