La leggenda dell’ambasciatore che suona sotto le bombe non è una leggenda.
Erano suonate le sirene antiaeree. Di nuovo. Sarà stata la decima volta, quella sera. Giù di corsa nel piano interrato, a decine. Prima le donne coi bambini, poi gli uomini. Infine lui.
L’elegante residenza del rappresentante italiano diventata un accampamento per sfollati. “Ambasciatore sta arrivando un’altra famiglia”, avvertiva il console Federico Nicolacci. E le guardie aprivano il cancello. “Ambasciatore, andiamo via?”, chiedeva qualcuno all’altro capo del telefono. “Non me ne vado se non sono tutti in salvo. E fino a quando a Kiev c’è un governo legittimo, l’ambasciatore italiano non se ne va”.
Pier Francesco Zazo è proprio come vorresti che fossero i diplomatici: polso di ferro e guanto di velluto. E anche spaghetti cotti come si deve, che nella residenza diventata fortino dei disperati se ne scolavano a quintali. Con il console e tutto il personale della Farnesina a districarsi tra relazioni internazionali e i biberon da scaldare. E i superman della sicurezza (si, superman, perché i supereroi esistono) che dopo le “estrazioni” di giornalisti finiti tra i due fuochi e il recupero di cibo e documenti sensibili schivando le smitragliate, prendono per mano i bambini e fanno sentire che con quei muscoli e quello sguardo non c’è niente da temere. È solo baccano, niente di più. Hanno figli a casa, ma oggi sono padri anche qua.
Intorno al magnifico pianoforte Petrof, posto in un angolo del grande salotto con i divani diventati letto e i tappeti materasso, i reporter scrivono e imprecano. Perché i missili piovono e le corse nel bunker fanno ritardare l’ora d’invio del pezzo in redazione. Sul leggìo, gli spartiti che Pier Francesco Zazo non ha il tempo di riordinare. C’è la guerra intorno e sopra di noi. Il suo telefono è sempre aperto. Relazioni internazionali e decisioni da prendere al volo. E intanto, in silenzio, organizza piani di evacuazione per gli oltre cento connazionali. Ma non si deve sapere.
Alcuni di noi, stufi del saliscendi e del gran frastuono degli ordigni e dei bagliori che ci costringono a interrarci come talpe spaventate, a un certo punto decidono di rinunciare al bunker. Le bombe cadono vicine. Vediamo la scia e sentiamo l’onda d’urto. Per strada ci sono scontri ravvicinati. E allora morire in un bunker che ci precipita addosso o distesi su un divano damascato “made in Italy”, fa poca differenza. “Ma è meglio il sofà”, ci diciamo con un paio di colleghi in preda alla spavalderia di chi a ogni sirena sente scattare un proprio intimo conto alla rovescia.
Ed è stato in uno di quei momenti, quando solo la poesia dei gesti e l’arte del coraggio sanno rimettere le cose a posto, che una volta esaurito l’ennesimo attacco dall’alto e mentre ne arriva un altro peggiore, Pier Francesco Zazo, in jeans e pullover, che di diplomatico hanno solo l’eleganza di chi l’indossa, si siede al pianoforte. E suona. “Libertango” di Astor Piazzolla, e poi alcuni passaggi senza tempo. Saranno stati un paio di minuti, forse meno. Tra una telefonata della Farnesina e una al governo di Kiev. Ma in quegli istanti di ritorno alla normalità, l’ambasciatore che suona sotto le bombe ci ha insegnato che la poesia e l’arte non hanno paura delle bombe. Aveva chiesto di non essere ripreso in video, così come aveva chiesto di tenere riservate le operazioni - poi riuscite - per salvare gli oltre cento italiani con una ventina di neonati e una decina di bambini piccoli.
Non abbiamo mantenuto quella promessa. E Zazo ci ha già perdonati. Perché nella filigrana di certe vite c’è la spina dorsale di un uomo e di ciò che rappresenta.
“La diplomazia senza armi è come la musica senza strumenti”, diceva il re prussiano Federico il Grande. E per fortuna a Kiev non abbiamo sentito solo le bombe.