L’ultranovantenne Robert Mugabe è un personaggio, nel contesto del vasto areopago politico africano, sul quale necessariamente s’impone – per gli storici ma non solo – un sano discernimento. Come succede spesso quando la leadership del despota di turno viene rovesciata, sarebbe troppo facile stigmatizzarne i limiti, le omissioni, le mancanze, i peccati e ogni genere di vessazione perpetrati, nel suo caso, nello Zimbabwe post-apartheid.
Certamente, nella seconda parte della sua vita, egli è stato l’emblema del “presidente-padrone”, crudele e violento. Ma attenzione: non è sempre stato così, essendo stato capace d’incarnare, a modo suo, i più svariati ideali, ostentando peraltro un’indole carismatica fuori dal comune. Questo esponente di spicco dell’etnia bantu shona zezuru nacque ufficialmente (stando al registro dei battesimi) il 21 febbraio del 1924, nei pressi della missione cattolica di Kutama, allora affidata alla guida pastorale della Compagnia di Gesù. Pare certo che da giovanissimo si fosse distinto per il suo zelo nei confronti del cattolicesimo. Sta di fatto che la sua condotta di vita, per quanto concerne la vita coniugale, fu segnata da una fedeltà integerrima nei confronti della sua prima moglie, di nazionalità ivoriana, Sarah Francesca Hayfron Mugabe, benvoluta dal popolo dello Zimbabwe e scomparsa prematuramente nel 1992. Se è vero che egli fu un insegnante modello per un ventennio, nel tempo abbracciò diverse ideologie, dal marxismo al leninismo, combattendo contro il regime segregazionista di Ian Smith. Nel 1949, grazie a una borsa di studio frequentò l’università sudafricana di Fort-Hare, dove si laureò in scienze politiche, entrando in contatto con esponenti del comunismo afro-antisegregazionista e dell’indipendentismo indiano. Ne scaturì una militanza che costò a Mugabe dieci anni di prigione trascorsi fra il 1964 e il 1974 nelle patrie galere.
In questi anni di cattività ottenne due diplomi di laurea per corrispondenza, a cui se ne aggiunsero altri quattro. Nel 1994 venne nominato Knight Commander dell’Order of the British Empire, onorificenza successivamente revocata. Salito al potere il 18 aprile 1980, dopo 20 anni di lotta politica quasi sempre clandestina, quando cioè venne proclamata ufficialmente la Repubblica dello Zimbabwe sulle ceneri dell’ex Rhodesia, (prima come primo ministro e dal 1987 come presidente), Mugabe, inizialmente, fece bene dimostrando di possedere una visione politica, un pragmatismo e una prudenza non comuni.
Sebbene manifestasse grandi simpatie per Mao Zedong, riuscì a conquistare la simpatia degli ex coloni, auspicando una riconciliazione tra afro e bianchi dopo una sanguinosa guerra civile costata la vita ad oltre 30mila persone di cui il 90% autoctone. Nei primi anni di presidenza, dunque, si rivelò capace di affermare un governo all’insegna del buon senso, investendo energie nella scolarizzazione del popolazione e in generale nel welfare. Lo Zimbabwe – è bene rammentarlo – nei primi quindici anni della sua presidenza era il paese africano col più alto tasso di alfabetizzazione, 85 per cento circa degli adulti.
Purtroppo, alla fine degli anni ’90, la sete insaziabile di potere lo portò a mantenere il comando del Paese con ogni mezzo, fino a ridurre in povertà la stragrande maggioranza della popolazione, polverizzando il reddito nominale procapite, che ormai è un infinitesimo di quello che il Paese un tempo poteva vantare. Non è un caso che l’arcivescovo anglicano e Premio Nobel per la Pace Desmond Tutu, a proposito della sua determinazione nel non abdicare e soffocare ogni genere di dissidenza, abbia dichiarato in più circostanze che, «se si fosse ritirato negli anni ’90, oggi sarebbe molto rispettato. Ma pare proprio che non sia capace di andarsene dignitosamente ». Per non parlare, poi, del suo storico avversario, leader dell’opposizione ed ex sindacalista, Morgan Tsvangirai, più volte aggredito e minacciato di morte, il quale lo ha definito senza mezzi termini «squallido esempio del despota pazzoide che tiene in scacco un intero Paese».
Una cosa è certa, come dicono gli anziani della sua etnia di matrice bantu: «Non ha saputo invecchiare». Continuando a salutare i suoi sostenitori a pugno chiuso e chiamando Politburo il comitato centrale del suo partito unico, Mugabe ha fallito miseramente, come dimostra l’imposizione con la violenza di una disastrosa riforma agraria, che ha dato le terre ai reduci della guerra di liberazione quasi azzerando la produzione agricola. Mentre scriviamo, è giunta la notizia che la sua seconda moglie è fuggita in Namibia e lui si trova agli arresti domiciliari. La storia di Mugabe richiama alla mente una massima del poeta Walt Whitman, secondo cui la parola democrazia «è una grande parola, la cui storia non è ancora stata scritta, perché quella storia deve ancora essere messa in atto».