«La porta del dialogo non è chiusa a chiave». Nemmeno i più acuti analisti prestarono troppa attenzione alla frase pronunciata dal neo-presidente Juan Manuel Santos nel discorso di insediamento, il 7 agosto 2010. Del resto, come ministro della Difesa dell’allora mentore Álvaro Uribe, Santos aveva dimostrato di essere un “falco”, capace di mettere con le spalle al muro la guerriglia, in particolare il gruppo più potente, le Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia (Farc). O almeno questo ripeteva il leitmotiv dominante. Gli abitanti di Macondo, tuttavia – come scrive la più celebre penna colombiana, il Nobel Gabriel García Márquez – sono abituati a vivere tra «il dubbio e la rivelazione », tanto che nessuno conosce con certezza «i limiti esatti della realtà». E, così, una volta al Palazzo di Nariño, contro ogni previsione, il presidente è diventato il grande artefice del negoziato con le Farc, culminato nell’accordo del 24 novembre scorso. Eletto da una nazione in guerra da decenni, Santos consegnerà al successore, fra meno di anno, la pace. Un’impresa storica. «L’impossibile si è fatto possibile», ha detto alla cerimonia di consegna del Nobel per la Pace, con cui il mondo ha salutato, l’anno scorso, la svolta colombiana. Tra le voci levate per sostenere il dialogo, è risuonata forte quella di papa Francesco. Sul volo per il Messico, il 12 febbraio 2016, Bergoglio si era impegnato a recarsi nel Paese, una volta raggiunta la pace. La promessa si compirà fra meno di due mesi quando, il 6 settembre, il Papa atterrerà a Bogotà.
Che cosa significa questo viaggio per la Colombia?
La visita di papa Francesco è un’opputunità per procedere nel cammino della riconciliazione. Il suo messaggio di pace ci aiuterà a disarmare i cuori e a riflettere sull’occasione che ci è data, come nazione, di iniziare a scrivere una storia nuova e basata sul rispetto della vita.
Ci sono voluti quattro anni di negoziati per chiudere oltre mezzo secolo di conflitto. Quanti ne occorreranno ora per concludere la faticosa tappa del dopoguerra?
Ci vorrà tempo. E, in tale processo, le istituzioni dovranno affrontare numerose sfide. Dall’accordo con le Farc, derivano una serie di impegni che, a loro volta, devono tradursi in leggi. Il Congresso ci sta già lavorando. Direi che siamo a buon punto.
Quali sono i maggiori ostacoli affinché la pace sia effettiva e stabile?
La costruzione di una pace duratura è sempre più difficile della firma dell’accordo che la origina. La “prova del fuoco” è portare sicurezza e benessere in quelle regioni colombiane dove lo Stato è rimasto finora assente. È questo l’impegno che ci siamo presi con l’intesa. E vi è un consenso dei principali settori economici e sociali sulla necessità di mantenerlo, favorendo in tali aree opportunità e progresso. Sono queste le migliori garanzie affinché la violenza non si ripeta.
Fra un anno, la Colombia eleggerà un nuovo presidente. Che Paese lascia Juan Manuel Santos al successore?
Il prossimo presidente, chiunque sia, si troverà di fronte una nazione nuova: in pace, più equa ed istruita. Un Paese in cui il sistema sanitario ha copertura universale; in cui l’educazione è – come è giusto che sia – priorità assoluta e pertanto è di miglior qualità, gratuita e aperta a tutti; in cui è in atto un’autentica “rivoluzione stradale” grazie al più ambizioso progetto di costruzione di vie di collegamento mai realizzato. In sintesi, troverà uno Stato al servizio dei colombiani, in grado di offrire maggiori opportunità e lavoro ai propri cittadini.
Esiste il rischio che il nuovo leader possa cambiare rotta sul tema della pace?
Il processo di pace è irreversibile. La fine delle Farc come gruppo armato è una realtà. Sono già evidenti i benefici della pace in termini di riduzione della violenza e vite salvate. Lo Stato, inoltre, sta portando occasioni di sviluppo in zone finora dimenticate. La stragrande maggioranza dei colombiani non vuole tornare indietro, ai tempi del conflitto.
Dall’inizio dell’anno, però, oltre 40 e attivisti sono stati assassinati. C’è il pericolo che i vecchi paramilitari – formazioni di estrema destra, nate in funzione anti-Farc e ora formalmente smobilitate – rialzino la testa?
Ogni morte ci addolora. Stiamo affrontando la questione con tutte le risorse di cui disponiamo in modo da proteggere la vita dei cittadini e, in particolare, di quanti lottano per una Colombia migliore. Lo Stato, nel suo insieme, sta agendo per tutelare gli attivisti e perseguire quanti li minacciano. Abbiamo creato una commissione ad hoc. La presiedo io e ne fanno parte esponenti delle principali istituzioni, dalla Procura generale alla forza pubblica. Non permetteremo che siano messi in pericolo i benefici della pace. Stiamo intervenendo con decisione e continueremo a farlo.
Fra i punti più interessanti dell’accordo, vi è la cooperazione con le Farc nello sradicameto delle piantagioni di coca. Come procede il lavoro?
Prima dell’intesa, le forze di sicurezza individuavano i campi “incriminati” e li distruggevano. In breve, tuttavia, in assenza di alternative, le comunità riprendevano a piantare coca. Ora, invece, offriamo ai contadini la possibilità di sostituire la droga con coltivazioni legali, redditizie e sostenibili. A tal fine, lo Stato dà loro aiuti economici, sicurezza alimentare, assistenza tecnica e accesso alle terre. Finora abbiamo sottoscritto accordi di “sostituzione volontaria” con 80mila famiglie, per un totale di 50mila ettari di coca in meno.
Una parte della società colombiana prova un forte risentimento nei confronti delle Farc, per la violenza dei lunghi decenni della guerra. Alcuni arrivano perfino a considerare l’accordo un «tradimento». Come fare per convincerla della necessità della pace?
La pace non si fa con gli amici, bensì con i nemici. L’intesa ci offre l’opportunità di rimarginare le ferite del passato. La fine del conflitto prevede spazi affinché le Farc possano continuare a chiedere perdono per i danni arrecati e offrano riparazione alle vittime. Credo che i colombiani, nonostante il rancore lasciato dalla guerra, meritino la possibilità di riconciliarsi. A tal fine, l’accordo assicura la più ampia partecipazione possibile delle vittime e delle comunità direttamente colpite dalla violenza.
Lei è stato tra i più strenui nemici delle Farc. Come si è convinto della necessità del negoziato?
In effetti, prima come ministro e poi come presidente, ho assestato i colpi più duri alla guerriglia. Ho sempre avuto chiaro, tuttavia, che il conflitto con le Farc sarebbe dovuto terminare per via negoziale. Fin dal primo giorno di governo, pertanto, ho cercato il maggior consenso possibile perché tale trattativa potesse realizzarsi e andare a buon fine.
Il suo governo ha avviato anche una trattativa con l’Elejercito de liberación nacional (Eln). Crede che si possa arrivare a un’intesa sul modello di quella con le Farc?
Abbiamo cominciato dei colloqui seri e ben organizzati. Il successo del dialogo con le Farc dovrebbe convincere l’Eln che la pace è l’unica via possibile. Questo processo ha, inoltre, l’importante sostegno della comunità internazionale. Ho detto all’Eln che dobbiamo approfittare la visita di Suo Santità papa Francesco per compiere un passo in avanti importante verso la pace.
Mentre la Colombia sta uscendo dal tunnel della guerra, l’altra patria di Bolívar, il Venezuela, vive una feroce crisi politica, sociale ed economica. La “via colombiana” può essere un esempio per Caracas?
Sono situazioni molto diverse. In Colombia, c’era un’insurrezione armata. In Venezuela, ci sono, invece, cittadini che chiedono al governo di rispettare la Costituzione e realizzare libere elezioni. L’accordo con le Farc, tuttavia, dimostra la possibilità di trovare un minimo comune denominatore pur tra visioni politiche diametralmente opposte. Perciò, la Colombia non si stanca di rivolgere appelli al Venezuela affinché trovi una soluzione pacifica e democratica alla propria crisi.