Un manifesto elettorale di Badhar al-Assad davanti a delle macerie a Homs - Reuters
«Dottore, il prossimo – a capitolare dopo Ben Ali in Tunisia e Mubarak in Egitto – sei tu». Ha poco più di 10 anni la scritta irridente dei ragazzini di Daraa che, nel marzo del 2011, diede il la alla rivoluzione siriana, ma nessuno può pensare che le elezioni di oggi rappresentino una reale svolta. Con due candidati fantoccio a fianco di Bashar al-Assad avviato a una scontata riconferma per la quarta volta alla presidenza della Siria – sino al 2028, in un contesto di collasso economico e di spartizione territoriale – il voto rappresenta una operazione di facciata, semmai allo scopo di aprire un possibile spazio di negoziato internazionale.
La consultazione avviene solo nelle zone della Siria sotto il controllo del governo – dove vivono poco più di 10 milioni di persone – e con una Corte costituzionale che ha passato al setaccio una lista di 51 candidati dando, grazie a una Assemblea nazionale completamente controllata dal partito Baath, il benestare solo ad altri due candidati, oltre al presidente uscente: l’ex ministro Abdallah Salloum Addallah definito un «sostenitore del regime» e Mahmoud Ahmad Marai, un «oppositore interno» tollerato dal regime e che ha partecipato ai colloqui di Ginevra voluti dalle Nazioni Unite.
Una sbiadita replica del voto del 2014, bollato anch’esso come una «farsa» dagli oppositori e dopo che nel 2007 un referendum plebiscitario aveva confermato al potere l’allora ancora giovane figlio di Hafez al-Assad. Una norma capestro sulle candidature che, per giunta, permette di presentarsi solo a chi risiede nel Paese da almeno 10 anni, impedendo in questo modo qualsiasi presenza dell’opposizione all’estero. Così, dopo che la bella Asma Assad avrebbe superato tra il 2018 e il 2019 un grave problema di salute, e sconfitto assieme al marito Bashar pure il Covid, la “coppia reale” si prepara a perpetuare l’immagine patinata da imperturbabili frequentatori del jet set, mentre davanti al mondo la Siria vuole perpetuare l’“illusione democratica”. In realtà è, da quasi un decennio, il Paese dei 13 milioni tra profughi e sfollati interni, e dei 2 milioni di minori senza accesso all’istruzione, mentre l’Acnur stimava nel 2019 che l’83 % della popolazione vivesse sotto la soglia di povertà. Una percentuale che non può che essersi ulteriormente alzata durante la pandemia che ha causato ufficialmente 24mila casi e 1.740 vittime. Cifre evidentemente sottostimate in un Paese dalle limitate capacità diagnostiche.
In realtà, a dieci anni dalla rivolta di Daraa, la Siria di fatto tripartita fra aree governative, area Nord orientale in mano ai curdi, e l’ultima provincia ribelle di Idlib – dove sono ammassati circa 4 milioni di “oppositori” – ulteriormente suddivisa fra l’area di influenza di Ankara lungo il confine turco, e la zona sotto il controllo di Mosca in base a una tregua che la crisi in Azerbaigian lo scorso settembre ha reso ancora più fragile. E il territorio sotto il controllo di Damasco, formalmente più esteso di quella che il rais controllava nel 2014, è quello di un Paese a “sovranità decentrata” dove prevalgono gli interessi della Russia – sempre più insediata nella base navale di Tartus, strategico sbocco al Mediterraneo – come gli interessi delle milizie che rispondono direttamente a Teheran. Basi iraniane in territorio siriano contro cui, periodicamente, Israele compie raid aerei in ritorsione ad attacchi missilistici sulle alture del Golan, mentre a fine febbraio uno Joe Biden appena insediato autorizzò un raid contro obiettivi iraniani in Siria in risposta agli «attacchi contro personale americano» a Erbil.
La dinastia degli Assad perpetrerà il suo regno, ma riuscendo sempre meno a governare il suo territorio, una vera “palude” dove il revanscismo del Daesh, il corridoio sciita e la brutalità di chi è abbarbicato al potere e di chi ha militarizzato l’opposizione producono una mattanza dei diritti umani su una popolazione civile oltre lo stremo. Cosa avvenga, al di sotto dell’illusione democratica, lo dimostra l’inchiesta che, secondo la stampa anglosassone, un gruppo di legali avrebbe fatto aprire in Gran Bretagna contro Asma Assad per aver «sostenuto e incoraggiato il terrorismo» in Siria. Questo mentre, dopo il massacro della Ghouta nel 2013, nuove accuse sono giunte al Consiglio di sicurezza per l’uso da parte del regime di armi chimiche a Saraqib. Un altro episodio che chiede verità, come «verità» sulla sorte di padre Paolo dall’Oglio, a più di 7 anni dalla sua scomparsa, hanno chiesto i fratelli Francesca e Giovanni Dall’Oglio. E una dichiarazione di Usa, Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia avverte la comunità internazionale di non riconoscere «elezioni illegittime».
Due sfidanti per un posto già assegnato
Gli sfidanti sono chiaramente delle comparse, per consentire all’organizzazione di potere che ruota attorno al governo degli Assad di confermarsi con lievi spostamenti di equilibrio interno, ma senza che cambi la struttura che da 21 anni ormai ruota attorno a Bashar al-Assad. Abdullah Salloum Abdullah, 65 anni, ex ministro di Assad designato dal Partito socialista unionista alleato del Baath di Assad, ritiene che «bisogna espellere tutti i terroristi e israeliani, americani e turchi dalla Siria e procedere alla completa liberazione di tutte le terre siriane». Nessuna menzione, invece, per russi e iraniani. Abdullah Salloum Abdullah, in una intervista, ha pure «lanciato un appello, per la lotta alla corruzione che è presente in tutte le istituzioni». L’altro sfidante è Mahmoud Ahmad Marie, avvocato nato 64 anni fa a Rif Dmashq, è stato espulso dal partito Baath al governo, ma fa parte di quella opposizione tollerata dal regime che ha partecipato ai colloqui di Ginevra organizzati dall’Onu.