venerdì 5 febbraio 2021
Sono 14mila i profughi dalla Turchia che vivono da due anni in isolamento in un campo al confine fra Iraq e Kurdistan. E i droni di Ankara che colpiscono le «basi del Pkk» fanno più paura del Covid
Una manifestazione di curdi turchi a Erbil, nella Regione autonoma del Kurdistan, in una foto d'archivio

Una manifestazione di curdi turchi a Erbil, nella Regione autonoma del Kurdistan, in una foto d'archivio - Ansa

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È una enclave nella “terra di nessuno”, là dove i confini fra Iraq e Regione autonoma del Kurdistan fluttuano come in un giardino mediorientale attraversato da milizie ed eserciti: è Camp Makhmour con i suoi 14mila curdi turchi. Poco più di tre anni fa la città, a un tiro di schioppo, è tornata sotto il controllo del governo di Baghdad.

L’esercito e le milizie sciite in pochi giorni avanzarono fino alla frontiera con il Kurdistan iracheno: un contraccolpo al referendum del 25 settembre del 2017 strenuamente voluto da leader curdo Masud Barzani. Una “riconquista” dei vecchi confini dopo che, tre anni prima, i peshmerga erano avanzati in forze per scacciare il Daesh. E proteggere anche il campo dei curdi di Turchia. Mentre il Daesh spadroneggiava a Mosul e nella Piana di Ninive, per un giorno e una notte i feroci guerriglieri di Abu Bakr al-Baghdadi fecero razzie fra le casupole in mattoni grigi e rubarono un’ambulanza. Il giorno più buio per il “villaggio” dei curdi sorto su quella che in origine era una tendopoli dell’Onu. Nel 1998 i bambini morivano per le punture di scorpioni e serpenti: ora, grazie alla mobilitazione internazionale di molte associazioni filo curde – “Verso il Kurdistan” di Alessandria la capofila in Italia – vi è un insediamento che si amministra secondo i principi del confederalismo democratico di Abdulla Ocalan: democrazia dal basso assembleare e parità di genere.

Solo ora, dopo più di 20 anni, si stanno costruendo le tubature per l’acqua potabile che arriva grazie ad autocisterne, inesistenti le fognature. Per i 3.500 bambini del campo funziona una scuola dove si insegna in inglese e curdo kurmancî mentre il piccolo poliambulatorio offre cure gratuite a tutti. È il risultato di una autoderminazione più tenace delle montagne, e di una rete di solidarietà internazionale.

Una vita da sempre in salita da quando, nella valle del fiume Botan (a ridosso del confine con Iraq e Siria), iniziò l’odissea senza ritorno di questa comunità: tra il 1986 e il 1999 furono quasi 3.500 i villaggi curdi fatti evacuare, milioni i «fiancheggiatori» del Pkk in fuga. Era il 1994 quando, dopo l’ennesima incursione di soldati e milizie inviate da Ankara «contro le basi dei terroristi» migliaia di curdi attraversarono i valichi innevati al confine iracheno lasciando sul terreno 300 vittime e circa 600 feriti da bombe, mine e gelo. In fuga e mai veramente accolti: cambiarono sede nove volte nel Kurdistan iracheno, prima di vedersi assegnato un fazzoletto di terra nella brughiera deserta fuori Makhmour. Fuggiti da una morte in silenzio, e condannati ad essere dimenticati.

Il Pkk comanda nel campo e questo basta ad armare i droni di Ankara che, due volte solo negli ultimi mesi, hanno colpito il campo dei «terroristi». E le squadracce del Daesh, l’anno scorso hanno fatto tre vittime durante una scorribanda subito respinta dal corpo di autodifesa. Camp Makhmour, infatti, è un piccolo Rojava (Kurdistan siriano), ma in salsa turca, perciò ancora più inviso a Erdogan e, ai suoi alleati del Partito democratico del Kurdistan ad Erbil. Così l’Acnur ha abbandonato il campo dall’agosto del 2019 «sotto embargo»: cancelli chiusi, vietato anche uscire per lavorare.

I guerriglieri combattono nel Sinjar, mentre alleanze fra diverse fazioni cercano di cancellare questi curdi da sempre dalla parte sbagliata. Il Covid intanto ha fatto sei vittime e 300 contagi. Ma non ha piegato i curdi: e la rete di supporto ha fatto giungere due respiratori per la sala della quarantena. Lotta e resistenza al Covid, e non solo: la libertà è come l’ossigeno.

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