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Il Pitt Rivers Museum di Oxford contro i pastori Masai. È solo uno dei tanti fronti su cui Londra è chiamata a fare i conti con il proprio passato coloniale. La comunità indigena che vive nella Great Rift Valley, in Africa, tra il nord della Tanzania e il sud del Kenya, chiede al museo etnologico britannico la restituzione di 148 antichi manufatti che espone da 138 anni. Oggetti che il Regno Unito, negli anni dello splendore imperiale, agli inizi del Novecento, ha trafugato e portato Oltremanica. La controversia assomiglia molto a quella di cui sono protagoniste Grecia e Nigeria. Atene chiede la restituzione dei marmi del Partenone esposti al British Museum, Abuja vuole riappropriarsi invece dei suoi famosi bronzi di Benin in mostra permanente sempre a Oxford. La trovata con cui il museo ha pensato di fare pace con i Masai è però unica e difficilmente riproponibile: offrirgli in dono delle mucche. La testata di Nairobi Nation scrive che due clan Masai di Narok, Sululu e Mpaima, hanno ricevuto dall’Università di Oxford, che gestisce l’esposizione, 49 bovini ciascuna. La mossa, è stato precisato, è puramente simbolica. Segno di volontà alla riconciliazione. Fa parte di un processo di dialogo tra le parti ispirato all’abc della diplomazia che insegna a misurare gesti e parole al contesto sociale e culturale della controparte. È vero che i bovini hanno rappresentato a lungo per i Maasai una sorta di moneta. Venduti o barattati in cambio di beni e servizi. Utilizzati persino per “pagare” ammende per comportamenti disonorevoli o criminali. Ma le cose, a Oxford lo sanno di certo, sono un po’ cambiate. Nella società Masai ha fatto capolino il concetto di proprietà privata e titolarità della terra. Vaste aree della savana, precedentemente gestite collettivamente, sono state suddivise e adibite a nuovi usi, tra cui il commercio. Il dono è stato apprezzato, hanno mandato a dire i pastori, «ma non è abbastanza per compensare» il furto e l’esposizione illegittima di oggetti appartenuti ai propri avi. Il direttore del museo, Laura van Broekhoeven, ha sottolineato in passato che quei manufatti – tra i tanti, spade, frecce, bracciali e cavigliere – sono stati acquisiti per mezzo di funzionari, missionari e antropologi di era coloniale secondo modalità allora legali. Non la pensa così il governatore keniano, Patrick Ntutu, convinto che «i proprietari di quelli oggetti siano stati uccisi o mutilati prima che gli ornamenti gli fossero portati via». I clan a cui sono state donate le mucche, portate in processione ai capifamiglia da impiegati dell’Università di Oxford, sono quelli a cui, secondo la ricostruzione degli inglesi, appartengono i soli cinque reperti, identificati come cimeli di sensibile importanza culturale, presi in modo sbagliato. L’idea di riportare a casa il tesoro che custodisce la storia e i segreti dei Masai è di Samwel Nangiria, un attivista per i diritti degli indigeni, che visitò il museo nel 2017 e riconobbe nella collezione da 500mila pezzi provenienti da tutto il mondo la portata sacrale di alcuni cimeli per i pastori della Great Rift Valley. La comunità non vuole fare causa ai “signori” di Oxford. «È per tradizione – dicono – che preferiamo sempre la pace alla guerra». Ma si aspetta, per lo meno, un risarcimento decoroso.