Emergency
La maternità di Emergency va avanti al ritmo di 650 parti al mese. In vent’anni è diventata punto di riferimento grazie all’impegno dello staff di 114 tra infermiere e ginecologhe Dall’inviata a Anabah All’alba, Nagin si lascia Kabul alle spalle e procede in bus per oltre tre ore verso nord, fino a raggiungere Anabah, nella valle del Panshir. Al tramonto fa il percorso inverso. Ogni giorno. Quando, però, indossa il suo impeccabile camice bianco, la stanchezza scompare dal volto. Visita dopo visita, Nagin conserva il sorriso e la dolcezza della voce mentre conforta le pazienti. «Ho desiderato tanto diventare ginecologa», racconta. Per sette anni ha lavorato come infermiera nella capitale per mantenersi all’Università. «Quando mi hanno chiamato nel Panshir ho accettato subito. Non posso trasferirmi perché la mia casa è a Kabul. Là vivono mio marito – che non trova lavoro – e i miei figli. Così viaggio. Non mi pesa, qui sono felice».
Lo stesso vale per Zary, infaticabile capo-ostetrica 25enne, che, alla fine del turno, non manca mai di fermarsi a salutare le malate. «Questo non è un lavoro, è il nostro sogno», dice. Già, un sogno nato da un altro sogno, quello di Gino Strada che, ad Anabah, nel 1999, ha creato il primo ospedale di Emergency in Afghanistan. All’epoca il Panshir era la linea del fronte nella guerra che ha dilaniato il Paese per 45 anni. Poi, i combattimenti si sono spostati a sud e la clinica si è specializzata nella cura dei traumi civili. Nel frattempo, dal 2003, alla vecchia struttura, si è aggiunta la maternità.
Un centro portato avanti da donne per assistere – gratuitamente – altre donne. L’unica forma di cura consentita in un contesto dove la separazione tra i generi è una costante culturale. Questo è il sogno di Nagin, Zary e delle restanti 112 tra ginecologhe, infermiere, ostetriche, inservienti. «All’inizio, il centro veniva guardato con sospetto dagli abitanti della valle. Poi, però, i buoni risultati li hanno convinti», racconta Claudia Pagani, coordinatrice nell’ultimo anno.
Lo staff, tutto al femminile, in vent’anni ha fatto venire al mondo quasi 80mila neonati e preso in carico circa mezzo milione di donne incinta, in un Paese con uno dei più alti tassi di mortalità materna e infantile: rispettivamente 638 decessi ogni 100mila nati vivi e 35 decessi ogni mille nati vivi. È diventata così la dimostrazione che una sanità gratuità può essere di qualità, tanto da essere diventato centro di eccellenza. “Perfino” se a gestirla sono delle donne. Un fattore quest’ultimo tutt’altro che scontato in una società fortemente patriarcale. Tanto più ai tempi dell’Emirato. Da dicembre, le afghane non possono lavorare nelle organizzazioni internazionali. Dal bando sono escluse, però, quante svolgono professioni sanitarie.
La maternità di Emergency, dunque, continua ad operare, al ritmo di 650 parti al mese. «Con il cambio di governo, abbiamo perso alcuni dei nostri professionisti più qualificati, partiti all’estero. Non è stato semplice sostituirli ». In qualche modo, dunque, per il centro di maternità di Anabah, il 15 agosto 2021 – il ritorno dei taleban a Kabul – ha rappresentato un nuovo inizio. Da molti punti di vista. Il Panshir, la valle ribelle, epicentro della resistenza, è stata occupata dalle milizie degli ex studenti coranici. Ora che la situazione si è stabilizzata, molti hanno portato le famiglie. Al contempo, tanti abitanti sono fuggiti. Ad Anabah, dunque, la popolazione è cambiata.
«Abbiamo dovuto conquistarci la fiducia dei nuovi arrivati. Come facciamo? Dialogando. Rassicuriamo i parenti maschi sul fatto che le pazienti saranno visitate solo da donne. Una recriminazione riguarda spesso il divieto di portare il burqa all’interno dell’ospedale – prosegue, indicando i fagotti di stoffa azzurra piegati all’entrata –. È per ragioni di sicurezza. Spieghiamo, con pazienza, che le loro mogli, figlie o sorelle saranno integralmente coperte con la sciarpa e il velo. Alla fine, comunque, la nostra migliore garanzia sono gli ex pazienti e i familiari. Sono loro ad assicurare che aiutiamo davvero le donne». Non solo le pazienti. L’entusiasmo delle 114 “ragazze” in corsia ne è la prova.