resti di una miniera d’oro illegale nella regione di Cali: migliaiadi ettari, nella zona amazzonica della Colombia, sono stati distrutti negli ultimi anni dai cercatori del prezioso minerale - ANSA
Lo chiamano “verde coca”: chiaro e brillante come le foglie degli arbusti intorno a cui, per decenni, ha ruotato l’economia di questo frammento di Colombia: il Putumayo, regione amazzonica al confine con Ecuador e Perù. Era sufficiente inoltrarsi appena nella selva perché il colore intenso e scuro dei grandi alberi secolari sfumasse in quello pallido delle “coqueras”, i campi di coca.
Da qualche tempo, però, man mano che ci sposta verso l’interno della foresta, però, il verde-coca è stato sostituito dall’ocra della terra brulla. Il colore – ben diverso dal giallo luccicante dei ripiani delle gioiellerie – associato all’oro nelle zone di estrazione. Come il Putumayo, in piena febbre del metallo prezioso. Comandos de frontera e Carolina Ramírez – gruppi armati nati da guerriglieri delle Fuerzas armadas revolucionaria de Colombia che hanno rifiutato l’accordo di pace del 2016 – hanno ormai spostato il “core business” dalla cocaina alle miniere. «Sono venuti da me e mi hanno ordinato di imparare a manovrare la scavatrice. Sono un contadino, quando mi hanno chiesto di coltivare coca è stato facile, non è molto diverso dalla yuca. Ma la scavatrice... Ho provato a dire che non ero capace. Non si trattava, però, di una richiesta. Così sono diventato un minatore. Lavoro dodici ore al giorno per riuscire a pagare la quota mensile ai Comandos: dodici grammi. Non mi piace. Però è più redditizio. Soprattutto per i capi». Andrés, ex cocalero di Puerto Guzmán, non lontano dalle rive del fiume Putumayo, nelle cui sabbie limacciose si cela il metallo, non sa niente di mercati finanziari. La sua è una constatazione empirica: il suo valore è vertiginosamente alto. Da gennaio, il prezzo dell’oncia – l’unita di misura di riferimento, equivalente a circa 28 grammi – è cresciuto del 29,49 per cento.
Lo scorso 30 ottobre ha raggiunto il massimo storico: 2.787 dollari, cioè 99 dollari al grammo. Nell’ultimo mese è sceso lievemente: 2.640 dollari. Una conseguenza, secondo gli esperti, della vittoria di Donald Trump e alla minaccia di aumentare i dazi alle importazioni di Cina, Messico e Canada. L’oro è estremamente sensibile a qualunque vincolo al commercio internazionale che ne rallenti il flusso. In quanto bene rifugio, poi, il suo costo è inversamente proporzionale a quello del dollaro.
Gli analisti, tuttavia – Goldman Sachs in testa – ritengono che si tratti di una flessione temporanea. Il boom del metallo dovrebbe continuare nel 2025, a causa del persistere delle turbolenze geopolitiche nello scenario mondiale. Fino a toccare il record di 3mila dollari l’oncia: quasi tre volte il costo di un chilo di foglie di coca. Le mafie, dunque, stanno investendo nell’estrazione.
Illegale ovviamente. «Già ora è un disastro, figuriamoci cosa accadrà», commenta con amarezza Joaquín, indigeno del popolo Yuri. Le miniere clandestine stanno letteralmente divorando le terre delle comunità native. I macchinari pesanti e, soprattutto, le pozze di mercurio, impiegato in abbondanza per separare la roccia dal metallo prezioso, uccidono vegetazione e fauna. Con impatti irreversibili sull’ecosistema. Il dramma colombiano si ripete analogo negli altri otto Paesi amazzonici. Quattro di questi – Colombia, Perù, Ecuador e Bolivia – hanno esportato, in base ai dati di una recente inchiesta della Red inestigativa transfrontaliera di Ojo Público, negli ultimi dieci anni, oltre 3mila tonnellate di oro di origine sconosciuta. Ovvero illecita.
Le cifre sono ottenute calcolando il divario tra quanto viene estratto con regolare permesso e il venduto. La differenza maggiore si registra in Perù, primo produttore latinoamericano d’oro. Per quanto riguarda il Brasile, l’Università di Minas Gerais ha trovato indizi di possibile illegalità in 109 tonnellate esportate tra il 2019 e il 2022. Non è facile seguire le tracce dell’oro clandestino che, grazie a una serie di compagnie conniventi, viene “ripulito” nelle raffinerie di India e Emirati Arabi, prima di essere rivenduto in tutto il mondo, Italia inclusa.
«Non è, però, impossibile, se le responsabilità vengono condivise tra nazioni di origine e Stati acquirenti», spiega Melina Risso, direttrice della ricerca realizzata dall’Istituto Igarapé di Rio e presentata, con il sostegno di 120 gruppi della società civile latinoamericana, alla recente Conferenza Onu sulla biodiversità (Cop16) di Cali. Il vertice, terminato a ottobre senza accordo a causa delle frizioni tra i partecipanti, riprenderà a febbraio a Roma. La “road map” sull’oro si compone di sette proposte concrete – dal rafforzamento dei controlli tra le frontiere al coinvolgimento dei popoli indigeni nella vigilanza – per arginare l’estrazione clandestina, tra le prime cause di devastazione dell’Amazzonia.
Quasi un milione di ettari di foresta sono stati “sacrificati” sull’altare dell’oro dalle mafie negli ultimi cinque anni, secondo l’Iniziativa Maap che ha creato un accurato sistema di monitoraggio satellitare. I danni maggiori sono stati inflitti alla regione peruviana di Madre de Diós, a territori degli Yanomami e dei Kayapó in Brasile, al parco venezuelano di Yapacana e sulle rive del Putumayo colombiano. «Il pesce non è più buono. Qualcuno si sta ammalando. Se mi dessero un’alternativa e protezione dai gruppi armati smetterei di manovrare la scavatrice – conclude Andrés –. In fondo, sono nato contadino. E vorrei tornare al mio campo di yuca».