sabato 10 agosto 2024
Dopo il 7 ottobre intensificata la politica degli insediamenti: quasi sempre si inizia con l’abbattimento arbitrario di case dei palestinesi. «Stanno pianificando la sparizione»
Rastrellamento di soldati israeliani in un quartiere periferico di Hebron, in Cisgiordania

Rastrellamento di soldati israeliani in un quartiere periferico di Hebron, in Cisgiordania - Ansa

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Se non ci fossero questioni più urgenti, si direbbe che in Cisgiordania sia stata intensificata la lotta all’abusivismo edilizio. Con un risultato bizzarro: alcuni edifici vengono polverizzati sotto i cingoli dei caterpillar, altri pur costruiti illegalmente restano in piedi indisturbati. «E protetti», aggiunge con tono di stizza Nabila, che studia Medicina all’università di Ramallah: non gli importa del richiamo del muezzin – «è anche stonato», commenta – ma tiene i conti dell’occupazione. «Toccherà a noi», ripete nel venerdì che svuota le strade e riempie le moschee del capoluogo cisgiordano.

«Mentre voi parlate di Libano, di Iran, di Gaza, loro si preparano all’annessione», insiste. «Noi e loro», da una parte all’altra delle muraglie, non si chiamano neanche per nome. Anche ieri mattina un gruppo di coloni israeliani ha attaccato i pastori dell’area di Juba, nella regione settentrionale della Valle del Giordano, aggredendo anche un residente e un attivista straniero accorsi per fermare l’agguato. Mutaz Bisharat, funzionario del governatorato palestinese di Tubas, ha denunciato il pestaggio del pastore Ahmed Hussein Abu Mohsen. I coloni lo hanno rapito. Ore dopo è stato ritrovato mezzo morto vicino all’insediamento israeliano israeliano di Mehola. Di solito, giorni dopo, qualche gruppo armato palestinese farà lo stesso con un colono che magari si è allontanato troppo dall’avamposto. Dopo i crimini commessi da Hamas il 7 ottobre, la retorica dell’occupazione si è trasformata in piani concreti.

Gli insediamenti israeliani in Cisgiordania sono quasi 300, tra colonie, postazioni militari e avamposti. In genere nasce prima un avamposto. In poche settimane diventerà un piccolo villaggio di coloni armati, protetti dall’esercito israeliano. Spuntano così nuove costruzioni dalla sera alla mattina, e intorno muri di cemento armato, sistemi di sorveglianza, droni spia che setacciano il perimetro. A poca distanza altre costruzioni vengono demolite. Il decreto di abbattimento può essere motivato da tre ragioni: costruzione illegale, necessità militari, punizione. I primi due casi sono ampiamente discrezionali.

Mancando norme che autorizzino l’espansione edilizia dei territori palestinesi, ogni edificio di più recente costruzione può essere preso di mira. Lo stesso se, pur non ravvisando apparenti illegalità, viene stabilito che una certa area è di interesse militare e dunque le case sono un ostacolo da rimuovere. Infine la pena accessoria per chi è accusato di reati contro la sicurezza di Israele: il presunto terrorista finisce in carcere e la sua famiglia viene gettata per strada. È il destino che toccherà presto ai genitori e ai familiari di Bashir e Mohammed Yusuf Anqawi, arrestati ieri nel villaggio di Bayt Sira, situato a ovest di Ramallah, con l’accusa di aver preso parte ad azioni violente contro Israele. Il fatto che entrambi siano minorenni, da queste parti ha poca importanza. In tutto il 2023 gli immobili distrutti dalle ruspe blindate sono state 554.

Quest’anno già 344. Nabila, che quei numeri li conosce e conosce anche molti di quelli che hanno avuto bisogno di ospitalità spesso senza neanche avere il tempo di portar via le proprie cose, mentre parla non riesce a far pace coi lunghi riccioli rossi. Non è la sola a temere che con Netanyahu al potere dopo avere ridotto in macerie Gaza, toccherà alla Palestina. «Se guardiamo le mappe delle colonie – osserva un funzionario della Muqata, la roccaforte dell’Autorità nazionale palestinese – è chiaro che stanno pianificando la sparizione della Palestina con la scusa che vorranno costruire una “fascia cuscinetto” tra Cisgiordania e Israele». Nei mesi scorsi i ministri dell’ultradestra israeliana, quelli che in Palestina chiamano “teofascisti”, si sono vantati di aver fatto arrivare alle colonie oltre 150mila fucili. Da sommare a tutte le armi già in circolazione. Secondo il ministero della Sicurezza nazionale di Tel Aviv, dal 7 ottobre le nuove richieste di porto d’armi hanno superato le 236mila, pari al totale raggiunto negli ultimi 20 anni. Itamar Ben Gvir, il controverso ministro di “Potere ebraico”, ha allentato i requisiti necessari, concedendo mediamente 1.700 nuove licenze al giorno.

Anche Mustafà Barghouti, il cardiologo di Ramallah che sfidò Abu Mazen alle presidenziali del 2005 con un programma basato sul cambiamento e la nonviolenza, ultimamente ha dovuto cambiare i toni specialmente con gli Usa: «Basta dare armi a Netanyahu. Senza di voi americani, lui non può sopravvivere e lui vi sta trascinando nello scontro con l’Iran».

Alla Muqata, dove le guardie in alta uniforme sfidano i 40 gradi seguendo a piccoli passi la traiettoria dell’ombra davanti al mausoleo di Yasser Arafat, preparano gli ultimi dossier per il prossimo viaggio del presidente Abu Mazen, di solito prodigo di parole in favore del popolo palestinese e per niente loquace quando si tratta di Hamas e delle altre fazioni violente che, confida chi lo conosce, lo hanno mandato più volte su tutte le furie perché «fanno il gioco di Netanyahu e a pagare le conseguenze è sempre l’intera Palestina». Mazen è pronto per una estremo pellegrinaggio in cerca di sostegno. Dal 12 al 14 agosto viaggerà verso la Turchia e la Russia, per rientrare a Ramallah alla vigilia della tornata negoziale per Gaza, attesa per il 15 agosto. Mentre Nabila addenta una ciambella di pane caldo che profuma di sesamo, riceve un messaggio da Nablus. Suoi colleghi di Medicina dicono che su un colle dove si coltiva grano è arrivata una carovana di israeliani con i mitra, i picconi e i sacchi di cemento. Una nuova colonia nasce, lentamente soffocando le speranze di convivenza.

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