Un manifesto che invita al referendum nelle strade di Erbil, capoluogo della regione autonoma del Kurdistan in Iraq (Ansa)
Si vota nel Kurdistan iracheno: dalle 8 ora di Erbil i curdi si pronunciano sulla loro indipendenza in un referendum il cui obiettivo è ottenere uno Stato per il quale lottano da quasi un secolo. I seggi si chiuderanno alle 18 ora locale. Il voto dei curdi della diaspora è già cominciato il 23 settembre e continuerà anche oggi. I risultati arriveranno 24 ore dopo la chiusura dei seggi. Si vota nelle quattro province della regione curda (Dohuk, Erbil, Suleimaniya e Halabja) e anche nei territori contesi tra i governi di Erbil e di Baghdad (le provincie di Kirkuk, Diyala e Ninive).
Il governo dell'Iraq è contrario al referendum, così come lo sono i confinanti Turchia e Iran, nonché gli Stati Uniti. Teheran ha annunciato di avere chiuso le frontiere con il Kurdistan, aeree e di terra, su richiesta di Baghdad. Ankara ha minacciato sanzioni, ma ha smentito di avere sigillato i confini. Le Nazioni Unite hanno messo in guardia dal «possibile effetto destabilizzante» del voto.
«Vogliamo premunirci: se lo Stato iracheno dovesse rafforzarsi, la nostra voce non sarebbe più presa in considerazione. L’Iraq non esiste più come Stato unitario per noi, perché ha creato un vero e proprio confine tra noi e loro, per passare il quale si deve pagare la dogana. Sono loro ad aver creato questa atmosfera per cui noi non ci sentiamo più parte dello Stato iracheno».
Parla chiaro Ziyad Raoof, rappresentante del Krg (il Governo regionale del Kurdistan) in Polonia. «Noi curdi – spiega – non vogliamo più far parte di un Paese come l’Iraq in cui la gente può essere uccisa per la propria religione. Noi abbiamo sfruttato il tempo per ricostruire il nostro Paese: è evidente l’abisso tra l’Iraq e il Kurdistan. Non abbiamo garanzie che non si ripeta la situazione del 2014 di cui sono stati vittima gli yazidi e altri, in cui il Daesh ha preso con facilità Mosul. Noi abbiamo dimostrato che la nostra società è aperta. Possiamo essere uno Stato e un partner credibile. E poi si sa che i soldati curdi hanno versato il loro sangue nella lotta contro il sedicente Stato islamico, certo non da soli, aiutati dagli Usa e da Paesi europei, ma sono stati loro a combattere in prima linea. È giunto il momento che la comunità internazionale si chieda: quale fra le nazioni nel Medio Oriente può essere un partner affidabile?».
C’è unità in merito al referendum nel Kurdistan? E le comunità curde nei Paesi limitrofi cosa ne pensano?
Per il momento oltre una decina di partiti è a favore. Due partiti islamisti, Komala e Kumran, sono contro: non negano la necessità dell’indipendenza ma dicono che non è il momento giusto. Per la maggioranza questo è proprio il momento giusto: più tardiamo, più difficile sarà attuarlo. Se non lo si fa ora si darà l’opportunità a gruppi paramilitari sciiti di organizzarsi e di incitare la popolazione alla guerra. Le minoranze si sentono più protette nel Kurdistan, quindi optano per l’indipendenza. I curdi che vivono in altri Paesi auspicano l’indipendenza. È comprensibile che molti curdi all’estero e quelli che di recente sono venuti a vivere in Kurdistan dalla Siria, dalla Turchia e dall’Iran, sperino di avere un’oasi di libertà curda. Però la nostra ambizione di indipendenza è circoscritta al Kurdistan iracheno. Non vogliamo intaccare gli interessi di Stato della Turchia, dell’Iran e della Siria.
Come superare il problema dei separatismi, cui si oppongono Paesi ad esempio come la Spagna che, per il “pericolo interno”, non ha riconosciuto l’indipendenza del Kosovo?
La nostra è una questione di sicurezza, diritti umani, corruzione, sviluppo umano. Perché gli arabi possono avere oltre venti Paesi in cui vivere, e invece i curdi sono stati suddivisi in tante parti? Credo che l’Europa si debba ricordare il periodo in cui per non voler accettare la suddivisione della Jugoslavia, è scoppiata una guerra molto sanguinosa nei Balcani, e alla fine la suddivisione c’è stata: sarebbe irrazionale non riconoscere l’indipendenza del Kurdistan. L’Europa ha bisogno di un partner credibile, fermo e stabile, esperto nella guerra al terrorismo. E poi il Kurdistan è anche un partner economico valido per le sue risorse naturali.
Un Kurdistan indipendente non rischia di diventare un nuovo Israele, circondato da Paesi non propriamente amici?
Molti Paesi arabi riconosceranno l’indipendenza: il re di Giordania ha detto che la riconoscerà. Capiamo le difficoltà dei Paesi firmatari della dichiarazione dell’Onu sulla protezione dell’unità territoriale, ed è raro che un Paese Onu riconosca l’indipendenza prima che venga proclamata.
Cosa succederà il 26 settembre?
Inizierà una fase di lavoro molto duro, ci sarà una trattativa con Baghdad e altri Paesi limitrofi. Tanto lavoro per convincere il mondo del valore del Kurdistan indipendente, perché nella Carta dell’Onu c’è una norma sul diritto all’autodeterminazione dei popoli. Bisognerà anche impegnarsi per la coesione sociale interna. Non escluderei ci possano essere delle reazioni dei gruppi paramilitari al risultato del referendum con degli attentati e degli scontri militari.