domenica 5 marzo 2017
Il rientro nella Piana di Ninive significa fare i conti con le devastazioni perpetrate dal Daesh durante l'occupazione. I primi cristiani tornati a casa: il sapore amaro della disillusione
Padre Jalal Jako davanti all'altare della chiesa nuova di San Giorgio a Bartalla

Padre Jalal Jako davanti all'altare della chiesa nuova di San Giorgio a Bartalla

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Fango, ai bordi della strada con i picchetti rossi: «Nel campo a sinistra ci sono le mine». Si perde il conto dei check-point di ingresso a Qaraqosh. Al primo stop ci sono ancora i curdi. Poi, a fare da filtro al lento ma continuo sciamare dei cristiani da Erbil verso la Piana di Ninive, ci sono diverse milizie: quelle dell’Unp sono cristiani, ma anche milizie sunnite fedeli a Baghdad in questa terra di nessuno a solo 20 chilometri dal fronte. Una fila di taxi sgangherati, bianchi e gialli, invece, offre corse per Mosul ai tanti profughi che, in questi ultimi mesi, sono fuggiti dal fronte apertosi il 17 ottobre scorso. Dietro al primo di tre blindati dell’esercito viene trainata la carcassa, tutto sommato ancora integra, di quella che era un’autobomba dei diavoli neri del Califfato.

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Profughi che fuggono da Mosul, e profughi da Erbil che ora tentato di ritornare. Ma rimettere piede nelle stradine di casa, dopo due anni vissuti con quest’unica speranza, è come gettare sale su una ferita che invece di rimarginarsi rischia di andare in cancrena. Chi ritorna trova solo distruzione. Ovunque: non c’è casa, negozio, edificio pubblico che non siano stati saccheggiati. Razzie, più con l’intento di devastare e umiliare che nella convinzione di poter trovare qualcosa di davvero prezioso. La chiesa di Mar Addai, devastata come tutte le altre a Bartalla, nella cintura dei villaggi attorno a Qaraqosh, ha addirittura dovuto ospitare in un locale forse di una portineria, un manipolo di terroristi del Daesh. «Pensavano, stando dentro una chiesa, di essere al riparo dalle bombe», spiega, indicando le brande, padre Paolo Mekko, che in quelle stradine è cresciuto. Attraversato un piccolo chiostro, la chiesa: le panche sono divelte, detriti e arredi sacri per terra e muri neri di fumo mentre sul marmo dell’altare e del tabernacolo sono ben visibili i buchi dei proiettili. Il primo gesto di chi ritorna, naturale come la cura a una vecchia madre inferma, è stato di ripulire almeno l’altare per riporvi nel centro croci spezzate e immagini sacre scagliate a terra.


«È il segno di un rancore profondo verso noi cristiani. Non possono essere stati dei foreign fighter. Sono stati i nostri vicini di casa», ti dice chi esce per andare a recuperare qualche oggetto nella sua casa distrutta. Segno di un odio cieco e spietato, in sfregio ad ogni credo diverso, come dimostra quella scritta poco dopo il monastero delle suore caldea figlie di Maria, completamente distrutto. «Allah combatte i giudei e chi li sostiene, i nazareni e chi li sostiene, gli sciiti e chi li sostiene«. Ma l’odio, ed è anche questo che stringe il cuore e frena il passo, in questa terra è ancora più vecchio delle bandiere nere del Califfato da pochi mesi ammainate. Nella sacresta di Mar Addai, sotto una lapide distrutta, c’è la tomba di padre Ragheed Gani, sacerdote di Bartalla ucciso davanti alla sua chiesa a Mosul il 3 giugno 2007. Un martire, come il vescovo Paolo Farraj Rahho, assassinato l’anno successivo dopo un rapimento di due settimane sempre a Mosul: un simbolo padre Gani della persecuzione e della sofferenza di questa comunità. Un simbolo non riconosciuto da quest’ultima orda barbarica guidata dal Califfo con il turbante nero. «Già da tempo – si racconta – venivano nei nostri villaggi alcuni musulmani per fare delle compere e dicevano: tutto questo sarà nostro. Ora sarà possibile tornare a vivere qui, sapendo che ci hanno colpito i nostri vicini di casa?». Domande che la notte non lasciano sazio al sonno. Anche a Hemera, villaggio sunnita vicino a Mosul, «adesso non c’è più nessuno». Sono fuggiti tutti, ma non nell’estate del 2014 bensì in quest’ultimo autunno quando l’esercito e i curdi avanzavano su Mosul. «Sono fuggiti con il Daesh, per paura delle rappresaglie delle milizie sciite», si racconta fra le viuzze di Qaraqosh. Incubi del passato che sembrano popolare già il futuro. Solo a Teleskop le prime 140 famiglie cristiane sono ritornate. Il villaggio nel Nord della Piana, vicino a Duhok, è come l’avamposto della ricostruzione. È l’unico in cui, grazie ai fondi messi a disposizione unicamente dalla Chiesa caldea, si sono avviati i primi lavori di ripristino. «Altre 600 famiglie si sono registrate per tornare. I lavori procedono e forse a giorni tornerà l’acqua corrente».



L’elettricità la garantiscono i generatori dei peshmerga curdi che pattugliano l’ingresso di Telleshkof. Negli altri villaggi cristiani sono già all’opera uffici per gestire la ricostruzione che ora stanno monitorando i danni e progettando come e da dove si inizierà a riedificare. Ma per ora non ci sono né i soldi, né le condizioni per farlo. Così, nel resto dell’antica piana dei cristiani dove si parla e si prega in aramaico, il ritorno ha il sapore amaro della disillusione: «Il 6 agosto del 2015, un anno esatto dalla nostra fuga forzata dalla Piana di Ninive – racconta padre Jalal Jako, rogazionista nativo di Qaraqosh –, con il vescovo Petros Moshe, siamo venuti sui monti di Mar Domila: su un versante c’erano i peshmerga curdi, dall’altro versante si scorgeva la Piana di Ninive in mano al Daesh. Volevamo, come Mosé, almeno poter guardare la nostra terra promessa». Una promessa che sembra non doversi avverare presto. I profughi, nelle riunioni convocate dai sacerdoti nei campi per gli sfollati, per rientrare chiedono prima di tutto sicurezza perché le milizie cristiane della National protection unit non sono certo una garanzia. E poi, chiedono una protezione internazionale, ma anche che l’esercito, ora che il fronte avanza a Mosul Ovest, sia tenuto fuori dall’abitato. Sicurezza, anche dalle milizie sciite che in molti hanno visto fare, nelle ultime settimane, nuove scorribande.



«Ho dato la mia disponibilità a tornare a Qaraqosh, con il vescovo e altri sacerdoti: è la gente che chiede che prima ci sia la presenza della Chiesa. Non si sa ancora quando sarà possibile farlo, ma questo sarà una spinta a far tornare la gente», conclude padre Jalal Jako. A Qaraqosh, semi-deserta e spettrale, la chiesa di Maria Immacolata è come un porto di approdo in cui cercare salvezza per i cristiani d’Iraq. Nella più grande cattedrale della Piana di Ninive, il vescovo di Carpi, Francesco Cavina, ieri ha celebrato una Eucaristia per una delegazione di Aiuto alla Chiesa che soffre. «Il Daesh si è scatenato in modo particolare contro le chiese, l’unico segno di bellezza in questi centri abitati. Un odio della bellezza che si può comprendere perché chi ha il cuore ottenebrato non comprende nemmeno la bellezza di Dio». È sera, è ora di ritornare. Nel chiostro laterale si cammina fra i bersagli di un improvvisato poligono di tiro per i cecchini del Daesh, calpestando bossoli di proiettili a manciate sul selciato. Qaraqosh, la bella, resta sola. Un sospiro sembra levarsi come un saluto: «Se ti dimentico, Qaraqosh, si paralizzi la mia destra».

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