Lo choc spiazza i familiari, che per quanto piangano e le riempiano di premure immaginando o ascoltando frammenti di racconto, non capiranno mai. Si stupiscono che il loro amore non basti. Le risate, la gioia e gli abbracci di figlia, moglie, nipote o sorella mentre scende dall’auto del trafficante o dell’autorità che l’ha salvata per andare loro incontro, dopo poche ore diventano mutismo, attacchi di panico, isolamento, depressione, stati di incoscienza, tremori, tentativi di suicidio. E sonno che dura per giorni. Come due sorelle di 20 e 26 anni liberate dopo la caduta di Mosul. Tre figli, indottrinate, hanno parlato dei loro «mariti martiri» e hanno dormito per oltre 7 giorni. Non è stanchezza, è una fuga.
Chi è vittima di abusi sessuali si “dissocia” da quell’orrore, chiude la propria mente per sostenere ancora la vita e la realtà, dopo aver “vegliato” con ogni mezzo per sopravvivere. E le donne yazide che tor- nano in queste ore, vegliare lo hanno fatto per tre anni. Secondo i medici, le 180 ritornate nell’arco dell’offensiva per liberare la capitale irachena del Califfato, sono le più gravi. Quelle che torneranno da Raqqa, lo saranno ancora di più. Oltre mille giorni di male assoluto da schiave sessuali: rapite, schedate, vendute, incatenate, torturate, stuprate ogni giorno da uomini di tutte le età.
Tra gli attivisti gira il video di un’adolescente tra le braccia della madre e di altre due parenti, in un ospedale. Si butta via, rotea gli occhi all’indietro. Poi urla terrorizzata e la sua disperazione è così viscerale da inchiodare anche un medico, immobile e con lo sguardo basso. Una settimana fa a Shariya, una 16 enne, che lo zio ha voluto mostrare ai giornalisti per documentare «osa hanno fatto alla nostra gente», ha raccontato di essere stata violentata da sette uomini. Un polso fasciato dopo aver tentato di romperlo durante la prigionia, senza voce e l’incapacità di tenere la testa sollevata. Un’altra, 22 anni, a poche settimane dal ritorno insieme alla sorella, dopo vari tentativi è riuscita a suicidarsi dandosi fuoco. Sono meno di 2.000 quelle tornate a casa. Oltre i traumi psicologici, tutte sono denutrite, con infezioni, fratture. I figli, nati durante la prigionia, vengono affidati altrove.
Chi è incinta, chiede di abortire in un Paese in cui è illegale e in una cultura che fino a poco tempo fa stigmatizzava l’esperienza della prigionia e la sua accettabilità sociale. L’assistenza psicologica a queste donne non è sufficiente. Sia nei campi di accoglienza, in cui vivono in condizioni di povertà (spesso i familiari le hanno “comprate” dai carcerieri a cifre enormi), sperimentano l’assenza dei familiari uccisi durante i rastrellanti e la distruzione delle proprie abitazioni, sia nelle strutture sanitarie irachene. Non mancano programmi di cura in Paesi come la Germania, gli Stati Uniti e il Canada, progetti di sostegno e riabilitazione di Ong locali ed europee, ma costi, posti disponibili, burocrazia per l’ottenimento di visti e documenti di identità sono ostacoli. E poi ci sono migliaia di bambini, anche yazidi, indottrinati dal Daesh. L’Iraq ha allestito carceri speciali. Loro non sono neanche percepiti come vittime.