Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è in difficoltà - Ansa
Per la maggior parte degli economisti sta andando a schiantarsi contro un muro. Il suo cerchio magico lo difende. Il diretto interessato ignora entrambe le parti e va dritto per la sua strada, come è abituato a fare in tutto. Il problema è che questa volta il presidente turco Recep Tayyip Erdogan rischia seriamente di giocarsi il consenso di cui gode ancora, scivolando su quello che è sempre stato il suo fiore all’occhiello e che gli ha garantito un regno e l’appellativo di «reís»: la crescita economica.
Alla base di questo disastro annunciato c’è la sua politica sui tassi di interesse, considerata non ortodossa dagli addetti ai lavori e che consiste nel tenere i tassi e quindi il costo del denaro basso. Questo modus operandi ha la caratteristica di spingere il consumo interno, da sempre una delle grandi locomotive della crescita del Pil turco.
Di contro, però, ha una serie di effetti collaterali che rischiano di essere deleteri per l’economia nazionale e il consenso del presidente e la Turchia al momento li sta sperimentando tutti. In primo luogo, la lira turca si è svalutata di oltre il 40% sul dollaro in appena un anno. E questo crea problemi enormi per un Paese come la Mezzaluna che ha un export ad alta, altrettanta, intensità di importazione. In secondo luogo, e questo lo stanno sperimentando tutti i consumatori, l’inflazione è fuori controllo.
La Banca centrale, che ha da tempo perso la sua indipendenza, caduta come tutte le altre istituzioni sotto il rigido controllo di Erdogan, ha annunciato che entro fine anno l’inflazione potrebbe toccare il 24%. Si tratta di una percentuale altissima, che arriva dopo anni in cui il capo di Stato era riuscito a contenere l’aumento del costo della vita a una cifra sola.
«Come dico sempre, il tasso di interesse è la causa, l’inflazione è il risultato. Stiamo tagliando i tassi di interesse ora e, se Dio vuole, vedremo tutti che anche l’inflazione diminuirà», ha dichiarato sicuro Erdogan in un’intervista televisiva, con le sue parole che hanno fatto rabbrividire gli economisti di mezzo mondo.
Come la definizione dei «social media come minaccia della democrazia» che ha ripetuto anche ieri. E chi lo contraddice, perde il posto. L’ultimo in ordine di tempo è stato due settimane fa il ministro delle Finanze, Lufti Elvan.
Le agenzie di rating declassano il Paese, ma l’unico obiettivo del leader è mantenere il consenso. Accusando anche i social di essere la «minaccia della democrazia»
Secondo l’opposizione, la situazione sarebbe ancora più grave. Il numero uno di Ankara, per tutta risposta, ha deciso di vietare l’ingresso al Tuik, l’Istat turco, a Kemal Kilicdaroglu, leader del Chp, il Partito repubblicano del popolo, che rappresenta la realtà più importante della minoranza in parlamento. La Istanbul Planning Agency, un’agenzia indipendente, ha stimato che a Istanbul, dove risiedono 14 milioni di persone, il costo della vita è aumentato di oltre il 50%.
Le agenzie di rating iniziano a essere sempre più scettiche. Fitch ha declassato l’outlook sul Paese facendolo passare da stabile a negativo. Gli investimenti stranieri diretti, denaro “solido”, che entra nell’economia in modo duraturo, spesso per finanziare nuovi progetti, scarseggia. La Banca centrale sta reagendo come può. Nell’ultimo mese è intervenuta sul mercato per tre volte, vendendo riserve in valuta straniera, che però hanno un limite e la Merkez Bankasi turca è nota per avere riserve scarse.
Il presidente continua a mostrarsi sicuro delle sue scelte, pronto, in caso di necessità a usare la strategia della tensione per calmare le voci troppo scettiche. La settimana scorsa, nel sud-est del Paese, l’intelligence ha scoperto dell’esplosivo sotto un’auto della scorta di Erdogan. Il Capo di Stato ha accusato soggetti non meglio precisati di «voler portare il caos». Intanto, però, per qualche ora, nel Paese, si è parlato solo di quello.