Gli analisti hanno finito per chiamarla «Erdoganomics» – crasi fra Erdogan e economics – ad indicare la politica monetaria che il sultano turco cercava di imporre alla Banca centrale per tentare di tamponare l’inflazione che già nove mesi fa galoppava tra il 15 e il 16%. Cadeva così la testa del governatore Nagi Acbal, come prima era caduta quella del genero di Erdogan Berat Albayrak al dicastero del Tesoro e delle Finanze, ed oggi, ultimo atto della rovinosa caduta della lira turca, quella del ministro Lutfi Elvan. Gli succede Nureddin Nebati, suo vice. Basterà?
Ad oggi l’inflazione va oltre il 20% e la divisa turca ha perduto l’80% del proprio valore nei confronti del dollaro in pochi anni. Una débâcle monetaria e finanziaria che non corrisponde a quella economica: nel secondo trimestre del 2021 la Turchia è cresciuta del 21% (essenzialmente un effetto posto-Covid) e su base annua si profila un trionfale 8,2%. Ma la débâcle rimane. Oltre a quella dei mercati che non hanno più alcuna fiducia nella Banca centrale Turca, c’è anche quella del Partito della Giustizia e dello Sviluppo, l’Akp, che rispetto alle elezioni del 2018 è sceso ai minimi storici (tra il 30% e il 33%) lasciando sul terreno oltre dieci punti percentuali.
Sembra un ricordo lontano l’epoca in cui dieci anni fa la scaltra classe dirigente greca strangolata dalla morsa della troika Bce-Fmi-Ue correva a mettere al sicuro i risparmi nelle odiate casse turche. «Oggi da quei depositi molti pensano di fuggire», ammette un funzionario della Camera di Commercio di Istanbul.
Di chi è la colpa? Al di là di ogni considerazione tecnica, il vero sconfitto è soltanto lui, Recep Tayyp Erdogan, lui e la sua teoria dei bassi tassi di interesse che hanno finito per accendere un’inflazione senza freni, lui e l’ossessione per la Beka, la «sopravvivenza», lui e l’eterno spauracchio del nemico alle porte, dell’accerchiamento da parte delle nazioni invidiose, del complotto (che pure c’è stato) per disarcionarlo.
C’è chi malignamente sostiene che si tratti di una crisi finanziaria astutamente provocata da Erdogan stesso a fini elettorali: in fondo con una svalutazione così pronunciata hanno ricominciato a volare le esportazioni e si è ridestato l’interesse degli investitori esteri. Il tutto in previsione delle difficili elezioni del giugno 2023. In piccola parte ha ragione lui. Ma di fatto è un uomo sconfitto.
Ma come era cominciato tutto ciò?
Spregiudicato ed efficiente ma dalla forte fibra religiosa, fin dalla giovinezza Erdogan individua nel kemalismo – la visione del padre della patria Kemal Atatürk il feticcio da abbattere. Dirà: «Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati». Frase che gli costerà l’arresto e quattro mesi di prigione. Ma già si intravede la stoffa del leader.
Quando diventa sindaco di Istanbul nel 1994 promette alla metropoli una radicale rinascita. E ci riesce. È il trampolino per la politica nazionale. Nel 2001 fonda insieme all’amico Abdullah Gül il partito di intonazione islamica Akp. Saranno anni di travolgente consenso e di grande effervescenza economica. I turchi lo premiano, si arricchiscono, cresce una middle class all’ombra della mezzaluna mentre si affievolisce la sirena laica del kemalismo. Il ventre molle dell’Akp è l’Anatolia, immenso bacino elettorale che in Erdogan vede il nuovo padre della patria. Imprenditori, commercianti piccoli funzionari applaudono.
È in quegli anni che precedono la rivolta di Piazza Taksim che comincia a intravedersi il profilo autoritario di Erdogan, che utilizza lo stendardo della democrazia per combattere i nostalgici del laicismo autoritario kemalista accarezzando il ritorno all’egemonia ottomana sulla regione: una Grande Turchia che faccia da arbitro in Medio Oriente, nel velleitario proposito di assurgere al ruolo di hub panislamico ispiratore e guida della politica regionale dal Sudan all’Iraq, dalla Libia al Libano. E sono tutti sogni infranti.
In Siria, con i curdi ammassati alla frontiera, nell’ondivaga e ambigua alleanza-rivalità con Mosca (che fronteggia in Libia e che provoca fornendo droni all’Ucraina) e con la Nato (che umilia comprando batterie antimissile russe perché offeso dal mancato golpe che quasi gli costa la testa e che reputa eterodiretto da Washington), fino al Libano: una nazione in default, stremata da una crisi monetaria similissima a quella che percuote la Turchia.
Nondimeno Erdogan vagheggia da sempre il potere assoluto, quello del sultano. Non per nulla si è fatto costruire nella capitale una reggia su misura, mille stanze, inaccessibile. E soprattutto vuota, come si sta svuotando il consenso attorno a lui. Non è più e non è mai stato il dominus regionale, e in compenso – nella sua lenta deriva autoritaria – si è guadagnato una fama poco onorevole.
«I cattivi stanno vincendo», ha scritto su The Atlantic Anne Appelbaum, alludendo a Putin, a Xi Jinping, e di striscio anche a Erdogan. Non per nulla la Turchia non compare – al pari di Russia, Cina e Ungheria – fra le nazioni invitate al Summit for Democracy promosso in questi giorni dalla Casa Bianca.
Attenzione, però. Erdogan ha sette vite. E non le ha ancora adoperate tutte.