Manifesti nel centro di Beirut esprimono la rabbia della popolazione provata dalla crisi - Marco Palombi
Anche questa mattina, la “preghiera laica” di tutti i libanesi, è stata intonata cercando sul telefonino la quotazione del “black change”: «Un dollaro per 16mila lire», è la quotazione abituale di questi tempi. Un cambio informale – di fatto quello reale – che in due anni ha spazzato via la storica quotazione del dollaro a 1.500 lire libanesi. Una tempesta nella Monte Carlo del Medio Oriente, dopo che il 9 marzo 2020 il governo ha dichiarato il default finanziario non riuscendo a ripagare una tranche da 1,2 miliardi di dollari su un prestito in Eurobond del 2010: chi aveva uno stipendio medio di 3 milioni di lire – pari a 2.000 dollari al mese – si trova ora ad avere in tasca meno di 200 dollari. Il buco nero, di quella che la Banca mondiale ha definito una delle tre crisi economiche peggiori dal 1850, da mesi sta inghiottendo, nel silenzio, il ceto medio che si trova paralizzato e senza immediate vie d’uscita se non, per chi ha un parente o una buona professione da mettere sul mercato, la fuga all’estero. Così ad agosto gli aerei che decollavano da Beirut per l’Europa sembravano l’ultimo giro di giostra per trovare accoglienza nella diaspora.
Code chilometriche per il carburante
Chi resta sopravvive in una vera “economia di guerra” che ha svuotato di auto i caotici ed inquinatissimi viali di Beirut: non c’è nemmeno denaro per comprare il gasolio da quando la Banque du Liban ha deciso di togliere ogni sussidio. Nella seconda metà di settembre il carburante iraniano, fatto giungere da Hezbollah attraverso la Siria, ha di nuovo riempito le pompe e file chilometriche di auto hanno riempito di mesti serpentoni le strade della capitale. Una boccata d’ossigeno, violando le sanzioni contro l’Iran, pagata a caro prezzo: un gallone di benzina costa ora 210mila lire libanesi rispetto alle 20mila lire di due anni fa. Dieci giorni di assalto alle pompe, per garantire i servizi essenziali, ora terminato perché i soldi sono finiti prima delle scorte. Intanto gran parte dei dipendenti pubblici, e non solo, sta a casa perché viaggiare in auto è troppo caro.
«Adesso è peggio delle bombe»
«Adesso è peggio che durante la guerra civile. Allora c’erano le bombe, ma il nemico era visibile e c’era una causa da difendere », esclama Claudette Hage, referente in Libano di Punto Missione (Ong Focsiv). L’insofferenza verso tutta la classe dirigente – mentre dopo 14 mesi di vacanza Najib Mikati ha finalmente insediato il suo governo – non sono più dissimulate: «Il nemico adesso? È il governo». È la rabbia, non più contenibile, anche di queste famiglie cristiane legate al Movimento ecclesiale carmelitano che fino al 2019 – per cercare di reagire alla crisi già presente – aveva organizzato dei corsi di cioccolateria e dei mercatini che procuravano ad alcune donne un mezzo stipendio. In Libano non c’è pensione per gli anziani e la sanità pubblica è garantita ai dipendenti statali. Per cui basta una malattia o – con la disoccupazione al 40% – un licenziamento per piombare sul lastrico. «Sono pronta a vedere tutto per far continuare gli studi a mia figlia all’estero. E ogni giorno speriamo di avere la corrente elettrica e un po’ di gasolio. Da cinque mesi, ormai, rimandiamo la tradizionale gri- gliata di famiglia», spiega nel salotto del suo appartamento Haly Karam. «Adesso il cacao e gli altri ingredienti costano troppo e nessuno ha i soldi per comprarlo», spiega. La ciocco-lateria, come tutto il resto, è andata in “default”: i casi di suicidio e di disagio mentale sono schizzati alle stelle. E quando tutti hanno le tasche vuote, non resta che la vicinanza umana. Con una ossessione, tipicamente libanese: riuscire a far studiare lo stesso i figli, in patria o all’estero. «Quando durante la prima ondata di Covid abbiamo distribuito dei kit sanitari si è formata una coda di tre chilometri: molti erano dei professori », spiega nel suo ufficio padre Michel Abboud, presidente di Caritas Libano.
Assicurare la scuola per 120mila studenti
La spiegazione è semplice: «Le famiglie non sono più in grado di pagare le rette delle scuole cattoliche e quindi mancano i soldi pure per gli stipendi degli insegnanti». È la paralisi di una società, con tanti ragazzi che rischiamo di restare a casa, magari in bei condomini residenziali ma senza energia elettrica. «Ci sono professionisti ora costretti a chiedere, in gran segreto e senza voler registrare il nome in elenchi ufficiali, quei 100 dollari che prima lasciavano in Caritas per chi stava peggio di loro», prosegue il padre carmelitano. Per garantire la sopravvivenza del circuito educativo cattolico – che accoglie un 30% di studenti musulmani – è nato grazie a un donatore francese il progetto “Education trust”: 120mila famiglie riceveranno 30 euro, circa la metà della retta, almeno per iniziare l’anno.
Si barattano i vestiti senza mai dire «domani»
«In Libano ormai nessuno dice domani», ti spiegano i beirutini. Vivere alla giornata è già una impresa. Mila, il viso dolcissimo di ragazza appena sfiorito nonostante i cinquant’anni e la vedovanza, è tornata nella casa dove vivono i fili per prendere del lavoro a maglia. Per vincere la depressione è tornata nel villaggio in montagna dei genitori e coltiva l’orto: un modo per risparmiare cibo ed elettricità. Ma non riesce a trattenere le lacrime: «La prossima volta vi mostrerà un altro Libano ». Duecento metri più in là, nella parrocchia di San Charbel, le donne accomodano dei vestiti appena arrivati. Chi ne ha uno fuori taglia lo porta, chi non sa come vestirsi può prenderlo. Senza pagare una lira.