La capitale dell'Amazzonia, Manaus, è uno degli epicentri della pandemia in Brasile - Reuters
Il Covid continua a far strage in Amazzonia. Le vittime del virus hanno oltrepassato quota centomila, per un totale di oltre 3,5 milioni di casi. La cifra comprende, oltre ai popoli indigeni, gli immigrati che, dal resto dell’America Latina, nell’ultimo secolo, si sono trasferiti in uno dei nove Paesi della regione. In totale, 35 milioni di persone che soffrono per la precarietà delle strutture sanitarie – su cui i rispettivi governi investono ben poco – e l’isolamento. Fra i nativi – circa tre milioni di 390 differenti comunità –, la pandemia ha già ucciso quasi 2.500 persone. Una stima al ribasso, dato che in quelle zone remote i tamponi sono pochissimi. Molti popoli, inoltre, sono composti da poche centinaia o addirittura decine di donne e uomini: il Covid ne mette a rischio la stessa sopravvivenza.
Nel mentre, la vaccinazione procede a rilento come – e ancor più che – nel resto dell’America Latina dove meno del 15 per cento della popolazione è immunizzata. Un rischio per il mondo intero dato che proprio la variante originata in Amazzonia si sta rivelando tra le più contagiose e mortali. Per questo, la Rete ecclesiale panamazzonica (Repam) – i cui bollettini sono la principale fonte di informazione sull’andamento del Covid nella regione – ha lanciato la campagna #vacunaamazzonia e, anche in occasione della giornata di domani dedicata dall'Onu agli indigeni, ha rinnovato l’appello ai governi dei Paesi amazzonici affinché si impegnino a rendere accessibili i vaccini.