Un malato di Covid in Yemen - Reuters
Ciò che rimane delle strutture mediche yemenite si sta sgretolando sotto il peso della seconda ondata di Covid nel Paese. Secondo la banca dati del Centro risorse dell’Università Johns Hopkins, che dispone di cifre ufficiali, finora in Yemen i casi di infezione da coronavirus sono stati 5.047, le vittime 986: numeri contenuti, si potrebbe pensare, rispetto ad altri scenari regionali. In realtà, dopo 6 anni di guerra, con un sistema sanitario paralizzato e terapie intensive con il contagocce, il contrasto al virus assume i contorni di una missione impossibile anche con poche centinaia di casi.
Inoltre, il timore, fondato, è che i numeri possano essere più drammatici: chi riesce a raggiungere un ospedale o un ambulatorio è una minoranza schiacciante di popolazione. L’organizzazione Medici senza frontiere (Msf) è in azione con il proprio personale all’ospedale di al-Gamhouria, ad Aden (la capitale provvisoria del governo riconosciuto dalla comunità internazionale, ndr), dove gestisce gli 11 posti letto della terapia intensiva, attualmente al completo, e i 46 del reparto di degenza. Al momento, lo Yemen ha ricevuto 360mila dosi (consegnate appunto ad Aden) di vaccino attraverso il meccanismo di solidarietà internazionale Covax.
Che cosa voglia dire vivere in Yemen oggi lo spiegano questi dati Onu: da metà marzo 2015, il conflitto ha provocato la morte di 233mila yemeniti, di cui 131mila vittime di fame, assenza di assistenza medica e infrastrutture. Più di 4,3 milioni di persone hanno abbandonato la loro casa per sopravvivere. I bambini che soffrono di malnutrizione sono 2,5 milioni, le persone colpite dalla carestia 16 milioni.
Sul campo, le forze filo-governative, fedeli al presidente Abdo Rabbo Mansour Hadi, in esilio in Arabia Saudita, sono in forte difficoltà. Marib, nel Centro-Nord dello Yemen, è la loro ultima roccaforte, sotto assedio da febbraio. I ribelli Houthi, sostenuti politicamente e logisticamente dall’Iran, non riescono a conquistarla, ma neanche arretrano. È chiaro che cercano di approfittare dell’isolamento politico di cui è protagonista Riad.
Il Regno dei Saud è stato lasciato solo dagli alleati emiratini, che si sono sfilati e hanno abbracciato la causa dei separatisti del Sud, e anche da egiziani e pachistani, interessati a «partire con il piede giusto» nelle relazioni con la nuova amministrazione statunitense di Joe Biden. Per la Casa Bianca, la conclusione del conflitto yemenita è una priorità poiché rientra nel quadro del dialogo con la Repubblica islamica iraniana, tutto da ricostruire dopo un mandato di presidenza Trump.
Biden intende recuperare l’accordo sul nucleare iraniano, aggiornandolo con l’inclusione di un capitolo dedicato al programma dei missili balistici di Teheran. Il successo del negoziato quest’ultima passa anche da Sanaa e dalla pacificazione dello Yemen senza la criminalizzazione dell’Iran.
Negli ultimi mesi gli Houthi si sono fatti sempre più aggressivi, attaccando con droni obiettivi strategici oltreconfine, in terra saudita: infrastrutture petrolifere, basi militari, depositi di armi. Non è dato sapere in che situazione versi la regione di Marib dopo due mesi di campagna militare, ma fonti ufficiali parlano di una tragedia dentro la tragedia.
Un cessate il fuoco totale, sorvegliato dall’Onu, il ripristino dei voli dall’aeroporto internazionale di Sanaa su alcune tratte, una revoca parziale del blocco del porto di Hodeida, sul Mar Rosso, il ripristino delle consegne di greggio e aiuti al Nord del Paese, oltre a trattative di pace costituiscono il cuore dell’iniziativa di pace presentata da Riad a fine marzo. Per ora caduta nel vuoto poiché considerata dalla controparte priva di garanzie. Eppure, una settimana fa, quattro navi container saudite hanno fatto il loro ingresso a Hodeida: l’Arabia Saudita, spalle al muro, vuole uscire adesso dal suo Vietnam. Un barlume di speranza per il futuro dello Yemen. Sempre che Teheran, in vantaggio, non cerchi di stravincere, spostando la linea rossa sempre più in là.