mercoledì 19 febbraio 2025
Ma bisogna salutare le persone in carrozzina (e non carrozzella)? C'è anche questa tra le cento domande, spesso provocatorie, affrontate da Iacopo Melio in un testo chiaro e immediato
Come spiegare ai nostri figli cos’è la disabilità

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Dieci capitoli, cento domande e cento risposte. Il titolo è stato scelto per incuriosire – Ma i disabili fanno sesso? (Il Margine, pagg. 234, euro 17,5) – anche le questioni relative alla sessualità, per quanto rilevanti, sono affrontate solo in uno dei capitoli. Negli altri si parla di definizioni, linguaggio e cultura, inclusione, barriere, scuola e lavoro, cose giuste e cose sbagliate, stereotipi, pregiudizi e luoghi comuni. Tutto quello che riguarda la disabilità, in modo semplice e diretto, raccontato da Jacopo Melio, consigliere regionale della Toscana, esperto di comunicazione digitale e divulgatore di questioni legate alla disabilità. Convinti che tutti gli spunti “per tentare di fare qualche passo avanti nella costruzione, insieme e solo insieme, di una società che scelga di realizzare ponti anziché costruire muri”, siano importantissimi, abbiamo scelto di pubblicare cinque brevi stralci di questo originale lavoro e siamo grati all’editore per questa opportunità.


Contano di più i fatti o le parole?

Quando cambiamo il modo di chiamare qualcosa quel qualcosa cambia, e quindi cambia anche il modo in cui le persone si rapportano a quel qualcosa.

I fatti (giusti o sbagliati che siano) dipendono dalla cultura nella quale è immerso l’individuo che li attua, e dato che alla base della cultura troviamo il linguaggio (e quindi le parole che lo compongono, come fossero tanti mattoncini) va da sé che cambiando le parole cambiamo il linguaggio, e quindi la cultura, e di conseguenza anche i «fatti concreti » tanto sbandierati da chi, spesso, non ha voglia di mettersi in discussione e migliorare il proprio linguaggio.

Ecco perché le parole sbagliate riguardanti la disabilità alimentano comportamenti sbagliati, creando così dei fatti sbagliati (culturali, come pregiudizi o stereotipi, ma anche pratici, come le barriere architettoniche), così come le parole giuste (non discriminatorie e non escludenti, prive di pietismo, compassione o sensazionalismo) portano la cultura ad arricchirsi, migliorando il modo in cui le persone si approcciano anche alla disabilità, e quindi portando a dei risultati realmente utili per l’inclusione.

Cosa significa normalizzare la disabilità?

Normalizzare la disabilità significa far capire che chiunque ha delle difficoltà quando si trova in un contesto sfavorevole, così come delle abilità se sfruttate nel modo corretto. Questo permette di far sentire tutte e tutti uguali, perché condividiamo ostacoli, problemi, impossibilità, ma anche sogni, speranze e ambizioni… Al punto da portare le persone a non vedere più la disabilità bensì la persona per ciò che è, nella sua totalità.

Ecco perché è estremamente importante sottolineare come, per tutte e tutti, ci sia sempre un momento o una situazione in cui non si sa fare qualcosa (mentre sappiamo fare altro), perché la disabilità non deve essere percepita come una questione di nicchia ma come una possibile condizione universale. In questo modo sarà più facile comprendere l’importanza del rendere la società pienamente accessibile, sia a livello culturale (attraverso servizi inclusivi, strumenti e opportunità) sia fisico (con l’assenza di barriere architettoniche e altri elementi o episodi esclusivi), imparando al tempo stesso a vedere la persona e non le sue difficoltà, o comunque normalizzando, appunto, tutto ciò che ci riguarda nel bene e nel male.

Si può ironizzare sulla disabilità?

Partiamo dal presupposto che se vogliamo «normalizzare » la disabilità ci si deve comportare verso di essa senza farle alcuno sconto, come ci si comporterebbe in qualsiasi altra situazione verso persone non disabili certificate: altrimenti sarebbe anche questa una forma di discriminazione, seppur inversa, mettendo le persone che riteniamo più fragili sotto a una campana di vetro. La regola fondamentale deve restare sempre la stessa: «ridere con» e mai «ridere di». Perciò sì, l’ironia (e ancor più l’autoironia) è preziosa quando viene attuata in modo intelligente e nel contesto giusto, anche perché ridere insieme è un ottimo modo per abbattere il muro dell’imbarazzo, avvicinando le persone per conoscere meglio realtà apparentemente diverse. Ricordiamoci però che le battute non dovrebbero mai essere «gratuite», ma devono al massimo colpire il potente anziché affossare chi invece si trova in una posizione di apparente svantaggio.

Ecco perché anche per scherzare «bisogna sapere», facendolo nel modo corretto, enfatizzando gli aspetti positivi senza allontanare e creare divari, con la speranza di affrontare le difficoltà della vita (perché no ridicolizzandole). Lo si può fare per «dare una spinta» alla persona coinvolta senza abbatterla ancor di più, alleggerendo socialmente la sua condizione (tutto questo, ovviamente, qualora la persona disabile «stia al gioco» e voglia essere partecipe nel fare ironia).

Devo rivolgermi alla persona disabile o a chi la accompagna?

Bisogna sempre rivolgersi alla persona con disabilità se il discorso riguarda lei, a prescindere dal fatto che sia sola o meno, altrimenti vorrebbe dire ignorarla o comunque non trattarla al proprio pari. Se poi vediamo, dopo almeno un paio di tentativi, che quella persona ha difficoltà a comunicare (per i motivi più disparati), allora possiamo rivolgerci a chi la accompagna.

Ecco perché mantenere un rapporto uno a uno, evitando il più possibile intermediari, resta sempre il modo migliore per includere adottando una comunicazione paritaria e priva di infantilizzazione.

Posso chiedere a una persona disabile di ripetere ciò che ha detto?

Non c’è nulla di male nell’ammettere di non aver compreso qualcosa e dunque nel farsi ripetere ciò che l’altra persona ha detto, anzi. Anche se può sembrare assurdo, questo è un modo per dimostrare che si intende proseguire una conversazione «alla pari», senza arrendersi subito con disinteresse verso l’altra persona. Se poi questo non fosse possibile, magari per una disabilità cognitiva o difficoltà verbali, non capendo comunque per più volte, allora ci si può lecitamente rivolgere a chi accompagna la persona con disabilità, qualora ce ne fosse una, per farsi spiegare con più tatto possibile cosa è stato detto. L’ideale però sarebbe trovare delle alternative dirette con la persona disabile, per esempio facendole scrivere cosa vuole comunicare su un qualsiasi supporto, che sia carta o smartphone, se è in grado di farlo.

Ecco perché sforzarsi di comprendere laddove ci sono problemi nel linguaggio, a costo di chiedere di ripetere alcune parole o frasi, o di trovare escamotage per facilitare la comunicazione, è sempre apprezzabile (in linea di massima, perché dobbiamo sempre considerare la variabile del carattere sempre diverso da persona a persona), perché sottolinea la volontà di un’interazione personale e non mediata, evitando il rischio di sminuire la persona con disabilità.

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