mercoledì 29 novembre 2023
Mani in pasta: se il carcere apre finestre di speranza
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La speranza ha tanti nomi, forme, sapori: può essere soffice o croccante; può avere le dimensioni di un chicco di caffè e l’aspetto di un tarallo o di un panettone artigianale. A dimostrarlo sono le numerose eccellenze alimentari prodotte ogni giorno all’interno di molte carceri italiane grazie a importanti progetti sociali. Gestiti da associazioni, cooperative e imprese del Terzo settore insieme con le amministrazioni penitenziarie, sono progetti che puntano a far acquisire alle persone recluse quelle competenze professionali utili al loro reinserimento sociale, civile e lavorativo una volta espiata la pena, come prevede l’articolo 27 della Costituzione. Inoltre, accolgono il monito lanciato lo scorso anno da Papa Francesco al mondo carcerario: «Non possono esserci condanne senza finestre di speranza».

Non sono poche – ma potrebbero essere di più – le esperienze che vedono detenuti e detenute mettere “le mani in pasta” per produrre cibi di qualità e dare a sé stessi una seconda occasione: noi ne abbiamo scelte quattro.

La prima è la Pasticceria Giotto di Padova, realtà che unisce un laboratorio professionale di alta pasticceria e un progetto sociale. Nata nel 2005 all’interno della casa di reclusione Due Palazzi su iniziativa della coop sociale Work Crossing e la collaborazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, produce panettoni premiati dal Gambero Rosso, biscotti, colombe e altre delicatessen che si possono acquistare nei punti vendita monomarca (nella città del Santo sono due, inclusa una gelateria artigianale) e nello shop on line. «Dall’anno scorso, con l’ingresso nella squadra di un maestro pasticciere stellato, produciamo anche pasticceria fresca», spiega Matteo Marchetto, il presidente della “Giotto”.

Partito 17 anni fa con pochi reclusi aspiranti confiseurs e quattro formatori tra cuochi e pasticceri, il laboratorio conta oggi sul lavoro quotidiano di una cinquantina di detenuti coordinati da una dozzina di formatori. «Anche le persone che hanno fatto del male possono produrre cose straordinarie», continua Marchetto, «perché il lavoro sa innescare cambiamenti positivi e potenti: ricordo la storia del giovane detenuto che ha lavorato da noi per più di dieci anni e che una volta libero ha aperto un proprio laboratorio. Il lavoro vero abbassa anche la percentuale di recidive: i dati ci parlano di un 2% da parte di chi ha potuto lavorare durante la reclusione contro una media del 70%. È un peccato che queste opportunità non vengano offerte in tutti gli istituti di pena italiani».

Sapori di Libertà è invece il nome dato al laboratorio di panificazione artigianale creato nella casa circondariale di Mantova dall’associazione Libra Onlus e gestito in forma di impresa sociale dalla Società cooperativa Sapori di Libertà. «Ogni giorno sforniamo due quintali circa di pane, un paio di bancali di dolci e tre di altri prodotti da forno con cui riforniamo ristoranti, alberghi, mense scolastiche», racconta Angelo Puccia, presidente di Libra e di Sapori di Libertà. «Vendiamo nei supermercati, negli ipermercati e attraverso l’e-commerce; siamo all’interno dei circuiti di economia carceraria, di agricoltura sociale e dei Gas e incoraggiamo il consumo etico nella filiera della Grande Distribuzione e Ristorazione Organizzata».

Il laboratorio ha aperto i battenti nel 2016 con quattro detenuti formati dal mastro fornaio di Mantova Pane, l’associazione con cui Libra ha dato vita alla coop: oggi sono divenuti dodici, di cui sei con misure restrittive della libertà, che hanno la possibilità, quando avranno scontato parte della pena, di lavorare fuori di giorno e rientrare in carcere alla sera. «Abbiamo un lavoratore che ha acquisito una tale padronanza dell’arte della panificazione che presto verrà ammesso al lavoro nel secondo laboratorio. Vedremo come se la caverà».

All’interno del carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso è in attività da qualche anno Caffè Galeotto, una torrefazione allestita dalla coop sociale non profit Panta Coop. Il caffè che produce è una miscela di crudi provenienti da continenti lontani; è presente in tutte le linee e viene tostato e confezionato dai detenuti stessi. L’idea di concentrare il progetto sulla produzione della bevanda più consumata al mondo è venuta a Mauro Pellegrini, il presidente di Panta coop, dopo aver notato che «nelle carceri del Lazio non esisteva una torrefazione e che i torrefattori e i manutentori delle macchinette da caffè sono figure professionali ambite sul mercato del lavoro».

L’acquisto dei macchinari è stato il primo passo, la messa a norma dei locali, il successivo. «Abbiamo aperto un centro di riparazione delle macchinette, che diamo anche in comodato d’uso; abbiamo realizzato impianti ex novo e acquistato attrezzature via via più grandi ed efficienti con cui soddisfare commesse sempre più numerose. Sono dodici i detenuti che vi lavorano ma il turn over è continuo: quando uno di loro comincia il lavoro “extramurale”, lo sostituiamo con un altro già formato», prosegue Pellegrini. «Anche per la vendita esterna abbiamo preparato delle figure ad hoc all’interno di Rebibbia. Siamo consapevoli che la strada è tutta in salita perché i pregiudizi sono tanti e i nostri competitors sono torrefattori in attività da un secolo».

Punta infine sui taralli, uno dei più antichi simboli della tradizione pugliese, il progetto Senza sbarre, nato nel 2018 da don Riccardo Agresti e dalla Diocesi di Andria per aiutare il reinserimento sociale dei detenuti ed ex detenuti del carcere di Trani e di altri penitenziari italiani. In una masseria della Diocesi di Andria è stato organizzato un laboratorio dove si producono i taralli con il marchio “A mano libera”, che è poi anche il nome della coop che gestisce il progetto. Don Riccardo la definisce una sorta di «comunità di restituzione», poiché «nelle prigioni italiane i detenuti vengono puniti, non rieducati. Il modo in cui trattiamo i carcerati delinea il nostro essere civili».

«È stata la provvidenza a metterci accanto le persone giuste, che ci hanno insegnato a preparare i taralli». Oggi i panificatori sono una decina e le prospettive appaiono rosee: «Siamo passati da dieci chili ogni due giorni a 500 chili al giorno, che vendiamo anche nei mercati meridionali. Abbiamo realizzato un secondo forno e contiamo di allargare il laboratorio». Per le persone che vi lavorano, la terra promessa è avere uno stipendio e il riscatto è la possibilità di percepire un guadagno in maniera onesta, afferma il sacerdote: «La nostra è una storia di vite ricostruite, di speranza. Se in ogni parrocchia ci fosse l’accoglienza anche di un solo carcerato, daremmo davvero un importante insegnamento evangelico».

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