In Italia si parla del mercato immobiliare un po’ come della Borsa: i toni sono positivi quando i prezzi salgono e si fanno preoccupati quando scendono. È un approccio interessante perché è di parte: l’aumento delle quotazioni è una buona notizia per chi una casa ce l’ha, ma è cattiva per chi se la deve trovare. Ragionare di abitazioni con gli stessi parametri che si applicano agli investimenti finanziari è diventato normale ma è un modo sballato di guardare la realtà.
Una società che tratta le case come le azioni trascura le loro sostanziali differenze. La prima è che le case, al contrario degli investimenti finanziari, sono beni essenziali: si può trascorrere una vita felice senza mai possedere un titolo o un’obbligazione, ma un posto in cui vivere, possibilmente con una porta e quattro mura, serve a tutti. La seconda è che se lo spazio finanziario è potenzialmente sconfinato, lo spazio abitativo ha invece limiti molto concreti: geografici, urbanistici e burocratici.
L’atteggiamento perennemente rialzista degli italiani verso i prezzi del mattone ha però una sua spiegazione: in un Paese in cui la quota di famiglie che abita in una casa di proprietà è stabilmente attorno all’80% da qualche decennio, i problemi del restante 20% – la minoranza dei non proprietari – soccombono rapidamente alle speranze della maggioranza. Incoraggiare con sconti fiscali gli italiani a diventare proprietari è stata una scelta politica iniziata negli anni ‘70 ed è coincisa con l’avvio di una graduale ma drastica riduzione dei progetti di edilizia pubblica. È emblematico che, come rivela un’indagine della Banca d’Italia di qualche anno fa, proprio negli anni ‘70 è iniziato un repentino rialzo delle quotazioni immobiliari medie italiane che ha portato i prezzi reali delle abitazioni – cioè al netto dell’inflazione – a raddoppiare in dieci anni e quasi triplicare nel giro di un quarto di secolo.
Dopo il picco toccato prima della crisi finanziaria del 2008 i prezzi delle case sono generalmente diminuiti (l’Istat calcola un calo di quasi il 9% nell’ultimo decennio) ma non dovunque e non per tutti. Idealista, uno dei portali di riferimento per le compravendite immobiliari, in base agli annunci pubblicati calcola per gli ultimi cinque anni un calo delle quotazioni del 19% a Napoli e del 6% a Roma, ma un aumento nell’ordine del 30% a Milano. Un dato che conferma come il capoluogo lombardo sia la città più “internazionale” del Paese: in tutto l’Occidente, infatti, è un momento di fibrillazione del mercato.
In un articolo sul portale Work in Progress, Sam Bowman, John Myers e Ben Southwood riconducono al problema della carenza di alloggi a prezzi abbordabili tutti i grandi problemi che il mondo occidentale ha in questo momento (Covid escluso): scarsa crescita economica, cattive condizioni di salute, instabilità finanziaria, calo della fertilità e disuguaglianza. È un allarme che non arriva certo da sinistra: il giovane Bowman è uno studioso irlandese che fino al 2017 è stato direttore dell’Adam Smith Institute, uno dei più antichi think tank liberisti. Il legame tra casa e disuguaglianza è particolarmente interessante.
Se si guarda alla situazione italiana, i numeri dell’Istat confermano che l’immobiliare è uno dei fattori dietro alla crescita della disparità di condizioni di vita tra le persone. In Italia l'indice Gini che misura le diseguaglianze è molto più alto sull’immobiliare (quello sulle rendite catastali è a 47 punti) rispetto a quello sui redditi (35,4 punti). E la situazione è in peggioramento. L’Istat rivela per esempio che tra le famiglie che appartengono al primo quintile di reddito, cioè il 20% più povero della popolazione italiana, la quota di proprietari di casa tra il 2005 e il 2019 è scesa dal 65 al 54,2%. Si è ridotta, dal 79 al 75,1%, anche la quota di proprietari tra le famiglie del secondo quintile, mentre è rimasta stabile per gli ultimi tre quintili di reddito, cioè per il 60% degli italiani più ricchi.
Significa che per gli italiani più poveri avere una casa di proprietà sta diventando più complicato. Con il rischio di finire in una spirale di discesa sociale. È ancora l’Istat a rilevare che tra il 2004 e il 2019 la spesa media mensile per l’abitazione è salita da 476 a 579 euro per chi vive in affitto, mentre per i proprietari è scesa da 252 a 242 euro. Chi vive in affitto deve dedicare alla casa in media il 28,5% del suo reddito, chi è proprietario solo l’8,6%.
Sono numeri che stridono con il buon andamento dell’indice di “affordability” che mette in relazione prezzi degli immobili, redditi e costo dei finanziamenti per misurare la capacità delle famiglie di acquistare casa. Attualmente quell’indice, elaborato dall’Agenzia delle Entrate, è su livelli piuttosto elevati: al 15%, quando lo 0 è la soglia che divide la situazione in cui la famiglia media non può comprare casa (indice negativo) da quella in cui può permettersela (indice positivo).
L’indice però non tiene conto dei patrimoni, che sono un fattore determinante per ottenere il mutuo: difficilmente le banche finanziano più dell’80% del prezzo d’acquisto. Il prezzo medio delle abitazioni acquistate in Italia nel 2020 è di 160mila euro: significa che una famiglia che non abbia come minimo 32mila euro di liquidità difficilmente può ottenere il credito necessario a comprare. Per come è impostato oggi, il fisco italiano non sembra in grado di contrastare la diseguaglianza immobiliare. È vero che lo Stato aiuta i cittadini intenzionati a comprare l’abitazione in cui vivere attraverso diversi incentivi, come le agevolazioni prima casa, la detrazione al 19% degli interessi sul mutuo o la riduzione delle imposte di registro. Ma chi non ha il patrimonio di partenza ne é tagliato fuori, così come resta fuori da quasi tutte le altre 43 spese fiscali dedicate ai proprietari di casa, misure che complessivamente valgono attorno ai 15 miliardi di euro. Con risultati anche paradossali: lo sconto fiscale per un proprietario di casa che la affitta scegliendo la cedolare secca del 21% (misura che non prevede limiti di reddito) costa allo Stato 2,3 miliardi. Lo sconto previsto per chi vive in affitto, riservato a chi guadagna meno di 31mila euro lordi all’anno, ha un peso sulle casse pubbliche di soli 328 milioni.