giovedì 20 giugno 2024
L’economista Luigino Bruni, nel suo saggio «Economia vegetale», esorta a prendere il meglio dal mondo delle piante, in grado di farsi carico dei beni comuni
Valorizzare il noi e le periferie: è tempo di imparare dalle piante

Ansa

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Come sarebbe il Ventunesimo secolo se il sistema economico avesse adottato un paradigma differente? Gli esseri umani avrebbero ugualmente trasformato la nostra nell’era dell’ebollizione globale? Ci troveremmo comunque di fronte alla minaccia esistenziale del cambiamento climatico? Probabilmente no. Inutile recriminare. Occorre agire. La consapevolezza delle “radici economiche della crisi” porta in sé una buona notizia: la transizione dell’economia da un modello animale a un modello vegetale offre le chiavi per riparare la “casa-mondo”. Ora, subito. Perché il bivio è ancora di fronte a noi e l’umanità ha, forse, una venticinquesima ora. Luigino Bruni racconta la sua Economia vegetale (Aboca 2024) con un linguaggio volutamente poetico. Non si tratta, però, di una questione di stile bensì di sostanza.

«Le metafore che utilizziamo non sono mai neutrali: ci orientano la fantasia e l’immaginazione, ci condizionano le domande che poniamo e, dunque, le risposte che otteniamo», scrive il noto economista della Luiss capace di spaziare tra i vari ambiti dell’umano, dalla spiritualità alla teologia, dalla filosofia alla letteratura. C’è tale sguardo poliedrico nella sua visione dell’economia civile, di cui è una delle colonne portanti. Una complessità di cui sono intrise le pagine dell’ultimo saggio dedicato all’economia vegetale.

Categoria quest’ultima disegnata proprio a partire dalle metafore. Quelle intorno a cui finora si è strutturata la scienza economica sono di tipo animale: il denaro come “sangue” o “sterco”, l’attività come gara sportiva, solo per citare alcuni esempi. La scelta, più o meno intenzionale, di scartare le metafore vegetali ha modificato profondamente la comprensione teorica dell’economia e le pratiche di studiosi e imprenditori. La proposta di Bruni, allora, è quella di riscoprire l’intelligenza delle piante che, troppo a lungo, non abbiamo saputo vedere. Queste ultime, diversi milioni di anni fa, hanno fatto una scelta irrevocabile: si sono fermate, sono diventate stanziali, sessili, mettendo radici. Ancorate al suolo, non hanno potuto fuggire dagli dei predatori o dalle sferzate delle catastrofi ambientali. Quest’apparente fragilità è diventata, però, la loro forza. Immobili e mansuete, hanno incassato i colpi degli altri viventi. Coniugando flessibilità e solidità hanno imparato a resistere. E a sopravvivere anche quando l’80 o il 90 per cento del loro corpo è stato divorato dalla furia degli umani o della natura.

La ragione di questa incredibile resilienza risiede nella differente distribuzione delle funzioni vitali. Negli animali sono concentrate in alcuni organi, nei vegetali distribuite nell’intera estensione del corpo. Ad occuparsi del singolo stimolo sono le cellule più vicine: il principio di sussidiarietà in chiave botanica. Le piante hanno, dunque, finito per valorizzare le “periferie”, le parti più a contatto con l’ambiente con cui comunicano costantemente. Conversazioni inaccessibili agli umani i quali hanno disimparato i linguaggi degli altri viventi.

Le caratteristiche enunciate rendono gli esseri vegetali dei preziosi maestri: l’intelligenza vegetale ha molto da dire a un’economia capitalista ancora prigioniera di un modello caratterizzato dalla forte divisione funzionale del lavoro e da un ordine gerarchico. Un paradigma animale, insomma. Il quale, va riconosciuto, ha consentito alle imprese di spostarsi rapidamente alla ricerca di nuove opportunità e risorse nonché di adattarsi agli stimoli esterni, diventando l’organismo di maggior successo, le grandi vincitrici della sfida evolutiva del nostro tempo iper-veloce, soprattutto se confrontate con le comunità civili e politiche, molto più lente, democratiche, ancorate sul territorio. Nel nuovo millennio, l’irruzione sulla scena dell’informatica, come una sorta di meteorite, però, ha modificato il “clima” e, d’improvviso, le condizioni evolutive dell’economia e della società. Per muoversi con efficacia in un questo nuovo habitat – nell’età della cosiddetta ragnatela –, è urgente un ribaltamento di prospettiva.

Non si tratta di un cambiamento cosmetico, con qualche ritocco – perlopiù semantico – nella governance. Si tratta di prendere sul serio il paradigma vegetale e imitarlo. Le aziende devono, dunque, attivare tutte le cellule del “corpo imprenditoriale”, rinunciando al rigido controllo gerarchico e alla concentrazione di cariche, potere, profitti in un’esigua minoranza. Il “noi” è il tratto distintivo dell’azienda vegetale. L’unica in grado di farsi carico dei beni comuni, su cui l’umanità si gioca la possibilità di continuare ad esistere. «I beni comuni sono essenzialmente una faccenda di relazioni, tra le persone e delle persone con la Terra e il cosmo. Senza un’attenzione alla dimensione relazionale della vita dell’economia, una relazione che attraversa il tempo e le generazioni, i beni comuni prima non si vedono, poi non si comprendono e, infine, si distruggono», scrive Luigino Bruni che elabora una proposta coraggiosa e visionaria: un patto sociale fondato sui valori “vegetali” della cooperazione, della diversificazione, della relazione. In una parola, sulla fraternità. Solo così la “venticinquesima ora” potrà essere la prima di un nuovo giorno per tutto il Cantico delle creature.

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