giovedì 10 agosto 2023
Al vertice regionale di Belém promesse generiche, parole ma nessun accordo concreto contro deforestazione e sfruttamento delle risorse. L'appello di papa Francesco di fatto inascoltato
Foto di gruppo festosa (nonostante i magri risultati) per i partecipanti al vertice sull’Amazzonia a Belém

Foto di gruppo festosa (nonostante i magri risultati) per i partecipanti al vertice sull’Amazzonia a Belém - Ansa

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L’accordo, per esserci, c’è stato. Ma come spesso capita in queste occasioni, è rimasto sulla carta: niente obiettivi comuni, niente scadenze precise, solo un vago impegno da qui al 2030, con i singoli Paesi che agiranno per conto loro.

Il vertice sulla deforestazione dell’Amazzonia, che si è tenuto martedì e mercoledì a Belem, in Brasile, con la partecipazione degli otto Paesi membri dell’Amazon Cooperation Treaty Organization (Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname e Venezuela), oltre che deludente, è arrivato a sfiorare l’incidente diplomatico, con il presidente colombiano Gustavo Petro che ha accusato la sinistra sudamericana, di cui lui stesso fa parte, di negazionismo climatico: «Per le forze progressiste è in corso un enorme conflitto etico, dovremmo stare sempre dal lato della scienza».

Ai leader è arrivato il saluto di papa Francesco «Assicuro le mie preghiere per il buon esito del loro incontro, augurando che si rinnovi l'impegno di tutti per la cura del creato e lo sviluppo sostenibile». Eppure le stesse dichiarazioni di Lula alla vigilia avevano fatto suonare un campanello d’allarme: il presidente brasiliano, grande promotore di un evento che, tra l’altro, non ha affrontato il delicatissimo tema dell’estrazione illegale dell’oro, aveva detto – testualmente – che «l’Amazzonia non è solo alberi e fiumi, non va preservata come un santuario ma in quanto fonte di conoscenza scientifica e di economia. Lì vivono milioni di persone che hanno diritto a trarne vantaggio e a vivere bene».

Affermazioni che col senno di poi risultano alquanto sibilline: se da un lato la Dichiarazione di Belem ha ribadito con forza i diritti e le tutele degli indigeni, dall’altro ha – per citare la “non decisione” più clamorosa – volutamente evitato di vietare l’estrazione del petrolio nel bacino del Rio delle Amazzoni, che era uno dei temi più attesi, visto che proprio in questi mesi il colosso energetico Petrobras, di cui lo Stato è azionista di maggioranza con il 50,3%, sta chiedendo nuove licenze per estrarre alla foce del fiume.

Per il Brasile l’argomento è da trattare con cautela, dato che il contributo dell’Amazzonia alla sua economia secondo le stime è pari a circa l’8% del Pil, anche se il presidente Lula aveva fatto dell’ambiente il cavallo di battaglia per segnare, dinanzi alla comunità internazionale, una netta discontinuità con il predecessore Jair Bolsonaro. Invece, così come per la guerra in Ucraina, la posizione del presidente brasiliano si sta rivelando ambigua.

È innegabile che il 77 enne ex sindacalista abbia dato un nuovo impulso agli sforzi contro la deforestazione, dopo che Bolsonaro aveva tagliato del 30% il budget degli enti governativi addetti al monitoraggio ambientale e scoraggiato il contributo di altri Paesi, al punto che Norvegia e Germania (invitate a Belem) avevano sospeso i finanziamenti per il Fondo Amazzonia, rilanciato invece in questi mesi con nuove risorse promesse da Usa, Regno Unito e Ue. Ma è anche vero, purtroppo, che proprio nel vertice di Belem l’attuale ministro dell’Energia, Alexandre Silveira, è arrivato a negare che ci sia un nesso scientifico unanimemente riconosciuto tra i combustibili fossili e il cambiamento climatico.

Eppure la crisi è più che mai sotto gli occhi di tutti: nel 2022, mentre Petrobras registrava un utile record a 188 miliardi di reais (circa 37 miliardi di euro), in crescita del 77% sul 2021 e con la distribuzione di uno dei dividendi più generosi al mondo, la foresta amazzonica perdeva ogni minuto una superficie equivalente a undici campi da calcio: venivano abbattuti 21 alberi al secondo.

Il 60% della foresta è in territorio brasiliano e gli habitat naturali del Brasile rappresentano circa il 15-20% della diversità biologica mondiale.

La deforestazione è responsabile dell’11% delle emissioni globali e pone rischi ambientali e alimentari che vale sempre la pena quantificare: con una perdita di foresta che già supera il 30% nell’Amazzonia brasiliana meridionale e che si prevede possa arrivare al 56% entro il 2050, gli impatti sulla produttività agricola potrebbero essere catastrofici.

Inoltre più del 75% dell’energia prodotta in Brasile proviene da impianti idroelettrici e, pertanto, i cambiamenti nelle precipitazioni determinati dalla deforestazione minacciano la sicurezza energetica dell’area.

Per non parlare poi dei rischi finanziari: la Banca mondiale stima che il valore della foresta pluviale amazzonica superi i 317 miliardi di dollari l’anno, circa sette volte di più del valore aggregato dell’agricoltura estensiva, dell’industria del legname e di quella mineraria.

In un editoriale pubblicato sulla Folha de Sao Paulo, Caetano Scannavino, membro dell’Observatorio do Clima, fa una precisa analisi costi/benefici sulle trivellazioni di petrolio nel bacino amazzonico: «Nel breve termine, estrarre quel petrolio genererebbe ricavi tra 700 e 2.300 miliardi di dollari. Ma ogni dollaro investito in riduzione delle emissioni consente di risparmiarne fino a 4 per i mancati effetti del cambiamento climatico. Senza un cambio di rotta, secondo Deloitte i costi per l’economia globale sarebbero di 178 migliaia di miliardi di dollari da qui al 2070. Ne vale la pena?».


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