Dobbiamo allargare lo sguardo. E affinarlo. È oramai necessario aumentare i pixel che "catturano" la realtà economica. Si arricchisce di anno in anno la platea degli osservatori per i quali la "ricchezza delle Nazioni" non è ben rappresentata dal Prodotto interno lordo, il mero valore monetario totale dei beni e servizi prodotti in un Paese. E nemmeno dai suoi derivati, come il Pil pro capite, comunemente utilizzato per misurare il grado di benessere della popolazione di un Paese e compararlo a quello di altri Stati.Eppure il Pil resta il "numero" che più di ogni altro condiziona, indirizza e determina le scelte della Politica. Secondo l’assioma "sviluppo economico" uguale "benessere umano". Le regole del Patto di stabilità e crescita, ad esempio, guardano anzitutto al Pil in rapporto al debito e al deficit degli Stati. Ben venga l’allentamento deciso di recente dalla Commissione europea, rimodulazione delle linee guida che consentirà anche all’Italia di investire risorse in infrastrutture senza aggravare i conti pubblici. Ma il punto di osservazione bruxellese e le "raccomandazioni" conseguenti non cambiano affatto. Continuando a trascurare in sede di diagnosi e successivo protocollo terapeutico elementi che risultano invece fondamentali per descrivere la qualità della vita dei cittadini. Le variabili sono parecchie: reddito e patrimonio, servizi abitativi, lavoro, vita di comunità, ricchezza delle relazioni, istruzione, ambiente, salute, benessere soggettivo e sicurezza. Non basta, quindi, superare quell’ideologia dell’austerità costata fra il 2010 e il 2014 alla Grecia cinquanta miliardi di euro in termini di "stretta fiscale" – sette "pacchetti" con aumenti di tasse, tagli di spesa, riforme e privatizzazioni – pari a un quinto del Pil. Sarebbe il momento invece di agire a un livello più profondo. Mutare radicalmente prospettiva, sul piano culturale e quindi di approccio teorico, per battere strade nuove e più inclusive che portino finalmente a una crescita equa e sostenibile. La «lama del disagio», ha ammonito il cardinale presidente della Cei, Angelo Bagnasco, nella prolusione pronunciata lunedì, «continua a tormentare» l’Italia. E «la forbice tra ricchi e poveri si allarga pericolosamente anche per la tenuta sociale». Che il Pil non fosse uno strumento esaustivo lo aveva premesso del resto il suo stesso ideatore, Simon Kunetz. Presentandolo nel 1934 al Congresso Usa, ebbe a precisare: «Il benessere di un Paese non può essere esclusivamente desunto da un indice delle entrate nazionali». Risale invece al 1968 il celebre discorso di Robert Kennedy: «Il Pil misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta». Nella comunità degli economisti già del 1973 William Nordhaus e il Nobel James Tobin si chiedevano se il Pil non fosse ormai obsoleto. Ma solo negli ultimi anni si è fatto sempre più forte il tentativo di individuare strumenti alternativi in grado di misurare, oltre la crescita, anche un progresso umano che non coincide necessariamente con un aumento di beni. Dal "Better Life Index" dell’Ocse al nostro Bes, il rapporto sul Benessere equo e sostenibile, realizzato da Istat e Cnel. Perché allora siamo ancora così ossessionati dal Pil? Perché resta il riferimento principe nella costruzione delle politiche economiche e nello stesso discorso economico sviluppato dai mezzi d’informazione?C’è un primo ordine di problemi che riguarda il modo in cui l’economia e gli economisti concepiscono se stessi. Il processo con cui la disciplina si è affermata a partire nel Novecento era volto soprattutto alla ricerca di un accreditamento fra le materie scientifiche, sul modello della fisica, con la matematica come linguaggio e strumento d’indagine. Un processo d’impronta "quantitativa" accelerato dallo sviluppo della finanza e dall’obiettivo di avere a disposizione equazioni in grado di descrivere e prevedere in forma probabilistica l’andamento d’indici e prezzi. Il Pil è dunque uno strumento potente, perché contiene un alto contenuto d’informazione espresso in forma sintetica. Ma pur restando dentro questo contesto epistemologico, la stessa Fisica si è dimostrata capace di andare oltre una descrizione della realtà pur poderosa quale era quella codificata dalle teorie classiche. La disciplina ha intensificato cioè lo sguardo per arrivare a comprendere la "struttura fine" della realtà, superando di fatto le equazioni di Newton o di Maxwell con la Relatività e la Meccanica quantistica, grazie a strumenti matematici innovativi che includevano soluzioni assolutamente contro-intuitive e sorprendenti.Volendo però andare al cuore della questione, ci si imbatte in un problema culturale di fondo. E in un salto da compiere. Nella costruzione di indicatori economici "classici", infatti, si disegna un quadro teorico e si cercano gli strumenti di misura. Senza esplicitare veramente gli obiettivi che si vogliono perseguire. Una sorta di corto circuito: misurare il progresso è la base per perseguirlo, tanto che gli obiettivi vengono di fatto stabiliti "ex post". Sarebbe necessario rovesciare tale approccio. E ripartire delle fondamenta ovvero da una descrizione dell’uomo non come "
hoeconomicus", ma definito invece dalla qualità delle relazioni.Il tentativo di recuperare il concetto di Economia civile che un gruppo di economisti italiani sta compiendo – da Stefano Zamagni a Luigino Bruni, da Leonardo Becchetti a suor Alessandra Smerilli – va esattamente in questa direzione. L’economia civile, come racconta spesso Zamagni, «è nata in casa nostra». Il termine appare per la prima volta nel 1754, quando all’Università Federico II di Napoli Bartolomeo Intieri affida all’abate Antonio Genovesi, allievo di Giambattista Vico, la prima cattedra di Economia della storia. Una cattedra intitolata «di Meccanica e di Commercio» per la quale Genovesi impartiva lezioni di «Economia civile», il titolo di un’opera che pubblicherà nel 1765. Sfogliando i manuali di storia economica, quell’appellativo "civile" non si trova facilmente. Perché l’espressione "Economia civile" è stata soppiantata dall’"Economia politica" di Adam Smith. Non solo una svolta semantica, ma un cambio di paradigma. L’Economia politica, sostiene Zamagni, si fonda su due capisaldi: il principio dello scambio di equivalenti, da cui deriva l’efficienza, e il principio di redistribuzione. L’Economia civile aggiunge un terzo principio che fa la differenza: la reciprocità. Include quindi quella politica, ma non viceversa. E il pensiero economico italiano, a differenza della tradizione anglosassone, ha sempre mantenuto quest’impostazione. Fino ad arrivare, in tempi più recenti, a Luigi Einaudi e alla Dottrina sociale della Chiesa. Non a caso, forse, al culmine della crisi dei
subprime il recupero dell’Economia civile ha destato un certo interesse persino negli Stati Uniti. O, più recentemente, nella City di Londra, dove da qualche anno si organizzano conferenze per riscoprire il pensiero sociale della Chiesa.Quella "civile" è una descrizione più complessa e raffinata della realtà. E permette di intercettare l’apporto qualitativo alla crescita di quelle che Luigino Bruni definisce le "altre economie". Dal capitalismo delle imprese famigliari al Terzo settore. Fino alla cosiddetta "
creative ignorance" descritta da uno dei massimi studiosi italiani di economia dell’innovazione, Pietro Formica, nei suoi lavori. Un’operazione culturale che ha purtroppo ancora cantori o protagonisti, fra gli imprenditori, troppo isolati. E che deve essere in grado di allargare la rete per sfondare il muro del Pil.