I dati sugli investimenti dall’estero nell’Unione Europea pubblicati dall’Eurostat qualche giorno prima di Natale aiutano a capire perché Bruxelles abbia fin qui ottenuto risultati così scarsi nel contrasto ai paradisi fiscali. A fine 2016 quasi un terzo dei 6.288 miliardi di euro di investimenti diretti esteri in Europa – in genere si tratta di azioni di società, quotate o non quotate – era controllato da soggetti basati in un centro finanziario offshore. Parliamo di 1.838 miliardi di euro di capitali che controllano aziende europee ma dei quali si sa ben poco, al di là del nome di facciata di una fiduciaria o di qualche studio legale utile a nascondere l’identità del vero proprietario del denaro.
La lista dei paesi dai quali arrivano gli investimenti in Europa è impressionante. Al primo posto ci sono gli Stati Uniti, con il 38,1% della quota di investimenti diretti stranieri, e al secondo la poco trasparente Svizzera, con il 12,2%. Al terzo posto, con il 10,3% degli investimenti, troviamo Bermuda, territorio d’oltremare britannico indicato dall’Oxfam come il più aggressivo dei paradisi fiscali per le società: non prevede imposte sui redditi d’impresa e raramente aderisce alle iniziative contro abusi e riciclaggio, segnalano i ricercatori dell’organizzazione non governativa che lotta contro la povertà. Al quarto posto per investimenti stranieri in Europa, con una quota del 5%, c’è il baliato di Jersey, dipendenza della corona britannica a pochi chilometri dalle coste francesi che negozia direttamente con le aziende l’aliquota da applicare sui soldi che portano sull’isola. Lì sono basate fiduciarie con un patrimonio stimato in 1.500 miliardi di euro. Scorrendo la classifica si trovano poi due paesi “normali”, come il Canada e il Giappone, dopodiché c’è ancora spazio per i paradisi fiscali. Come le Isole Cayman e Gibilterra, altri due territori d’oltremare britannici che non tassano i redditi delle imprese e che controllano ognuno il 2,7% degli investimenti stranieri in Europa. Più della Cina, che con tutto il suo attivismo nel Vecchio continente ha una quota di un “misero” 2,2%, non molto superiore a quello di un altro paradiso fiscale che batte bandiera britannica, le Isole Vergini (1,6%).
Quelli della Cina, però, sono investimenti “veri”, che puntano al controllo reale delle imprese europee per mettere le mani sulle loro tecniche e le loro competenze. Difatti la Commissione europea sta lavorando a un meccanismo di screening per analizzare ed eventualmente fermare gli investimenti sgraditi che arrivano dalla Repubblica Popolare. Curiosamente Bruxelles non si è mossa con la stessa decisione contro gli investimenti fittizi che arrivano dai trust e dalle fiduciarie anonime basate nei paradisi fiscali. Eppure le cifre, come conferma Eurostat, sono di gran lunga maggiori. Il centro di statistica rivela anche che la presenza dei capitali offshore è in forte espansione: è cresciuta del 63% tra il 2013 e il 2016, aumentando di oltre 600 miliardi di euro.
La ragione non è misteriosa: i paradisi fiscali in giro per il mondo hanno forti alleati nei paradisi fiscali che fanno parte dell’Unione Europea. Paesi che sono perfettamente organizzati per concentrare gli incassi delle aziende di tutta l’Ue per poi spedirli ai Caraibi, dove possono rifugiarsi lontano dalle mani del fisco. Dei 1.838 miliardi di euro di investimenti offshore in Europa 775 sono in Lussemburgo, 573 in Olanda, 192 nel Regno Unito e 156 in Irlanda. Questi quattro paesi ospitano il 92% degli investimenti offshore europei e sono gli stessi che ostacolano i tentativi di chiudere le porte di uscita ai capitali che cercano di fuggire dal fisco europeo. Li ostacolano perché quelle porte servono sempre a loro, che infatti guidano la classifica degli investimenti diretti europei all’estero, dove figurano in totale 1.276 miliardi di euro di capitali europei investiti in centri finanziari offshore.
Sono stati questi stessi governi a impedire che il 5 dicembre il Consiglio europeo fosse in grado di realizzare una lista nera efficace dei paradisi fiscali. I 17 Paesi indicati come «non-cooperativi» dai capi di Stato europei sono quelli dalle alleanze politiche più deboli. Nella lista nera ci sono paesi come la Mongolia, la Namibia e Trinidad e Tobago. C’è Panama – indifendibile dopo avere dato il suo nome allo scandalo dei Panama Papers – ma ad esempio non ci sono Bermuda, Jersey e Cayman, che si sono conquistate un posto nella più tranquilla "lista grigia" per meriti non chiariti. Eppure è proprio alle Bermude che ha base Appleby, il più grande studio legale offshore al centro del caso dei Paradise Papers. È lo studio che aiutava a risparmiare sulle tasse giganti come Apple, Nike, Uber o Citigroup.
Se l’Europa avesse davvero intenzione di fermare i paradisi fiscali, gli basterebbe mettere al bando i capitali senza identità che provengono dai paesi non collaborativi, ha proposto il fiscalista Tommaso Di Tanno. Sarebbe sufficiente introdurre questa stretta con una certa gradualità per chiudere una volta per tutte la questione. Ma sarà difficile riuscirci, finché i paradisi fiscali avranno amici così numerosi tra chi comanda nel Vecchio Continente.