Filimon Bashay - Hdru Yemane - Omer Seid - Debesay Rusom - Huruy Yohannes - Mogos Tesfamichael - .
Erano dodici. Morti come muoiono i dimenticati. Trascinati nell’abisso di un continente che volta le spalle. Sette sono affogati in mare. Cinque mentre venivano riportati in Libia. Erano dodici, ma non sono più un numero. Anche i morti hanno diritto a un nome. Ora possiamo darglielo, per sei di loro anche un volto: Omar, Mogos, Hzqiel, Hdru, Huruy, Teklay, Nohom, Kidus, Debesay e i tre Filmon. Erano tutti cristiani. Tranne uno, «il nostro fratello Omar», diranno i superstiti.
Hanno esalato l’ultimo respiro nella notte dopo la Pasquetta. Salpati da Sabratha tra il 9 e il 10 aprile, per tre giorni hanno atteso senza cibo il barcone dei trafficanti. Tre giorni con le armi puntate, per sperare di farcela, per dire addio alla morte in Libia e per sognare di arrivare nell’Europa cristiana nel giorno di Pasqua. ragazzi tra i 18 e i 25 anni, alcuni erano al secondo tentativo. Sapevano cosa vuol dire venire catturati dai libici e rimessi nelle mani dei torturatori. Stavolta un aereo di Frontex, l’agenzia europea per i confini, li aveva individuati. La posizione era stata trasmessa alle autorità italiane e maltesi, come ha precisato Frontex in una nota. Coordinate verosimilmente arrivate anche a Tripoli.
Per cinque giorni sono stati abbandonati alla deriva, nonostante le disperate richieste d’aiuto di Alarm Phone. Nonostante gli appelli della Chiesa maltese. Per cinque giorni nelle capitanerie si guardavano le cartine marittime. «Sono in acque maltesi», hanno spiegato da Roma. «No, sono in acque di ricerca e soccorso libiche», hanno risposto da Malta. Era Venerdì Santo, il giorno di Pilato. Quando da La Valletta, il martedì dopo Pasqua, è stato fatto partire un misterioso peschereccio, uno di quei navigli commerciali adoperati dalla flotta clandestina libico–maltese scoperta da Avvenire, sette di loro si erano gettati in acqua, con onde fino a due metri, per tentare di raggiungere «una grande nave», come l’hanno chiamata i sopravvissuti.
Quasi tutti cristiani, tra i 18 e i 25 anni. Avevano subito schiavitù e torture. Alcuni erano stati catturati già una volta in mare. Ora le famiglie potranno chiedere giustizia
Un cargo che non ha potuto avvicinarsi. «Alcuni si sono lasciati morire nel mare», ha raccontato una delle superstiti prima di venire rinchiusa con gli altri 51 nella prigione tripolina di Tarik Al Sikka.
L’equipaggio, pare in gran parte egiziano, sebbene neanche su questo a La Valletta concedano risposte, ha issato sul ponte dove di solito finiscono le esche e le sigarette di contrabbando 51 naufraghi ancora capaci di trascinarsi almeno a carponi. Altri cinque, invece, li hanno distesi che sembravano come quelle bestie che dal fondo marino finiscono spiaggiate. Lampedusa era a 30 miglia. In un’ora sarebbe arrivato almeno il boccaglio con l’ossigeno.
«Ma La Valletta non ha chiesto aiuto», spiegano dalle capitanerie italiane, «non hanno neanche comunicato i dettagli dell’intervento». Da Malta, distante 80 miglia, una motovedetta ci avrebbe messo un paio d’ore a riportare tra i vivi quelli che ormai erano destinati a morire. Ci sono volute più di sette ore perché il peschereccio che sulla chiglia non reca nessun nome, ma sulle carte dei registri nautici di bandiere e nomi ne ha fin troppi, arrivasse a Tripoli. Troppo tardi anche per un miracolo. Così hanno scaricato 51 ancora vivi, subito dati in pasto agli aguzzini libici, e cinque corpi. Ora che conosciamo i nomi, si potrà chiedere giustizia per loro.
Un tribunale di Malta sta indagando per la presunta omissione di soccorso e il respingimento illegale in Libia. Sul banco degli imputati potrebbero finire il premier laburista Robert Abela e i vertici delle forze armate. Qualcuno, forse, porterà in aula i volti rintracciati attraverso conoscenti, attivisti, profughi della diaspora eritrea in Europa. Quella diaspora tante volte raccontata e documentata qui da Paolo Lambruschi: dagli organi strappati nel deserto per rivenderli al ricco mercato dei trapianti illeciti, ai filmati di uomini e donne appesi a testa in giù e selvaggiamente picchiati, immagini che inchiodano le milizie libiche travisate ora da guardia costiera ora da polizia anti–immigrazione.
Per l’avvocato Giulia Tranchina, «tutti gli elementi e prove emerse finora indicano serie responsabilità giuridiche da parte delle autorità Maltesi, che rifiutando per almeno 5 giorni di soccorrere le 63 persone in mare e avendo coordinato il loro respingimento illegale dalla Sar maltese alla Libia, hanno causato – argomenta da Londra il legale dello studio Wilson Solicitors, specializzato in Diritti Umani – la morte di 5 persone che necessitavano di assistenza medica urgente e avrebbero potuto essere salvate». Lasciati alla deriva, a morire di fame e sete «hanno sofferto un trattamento inumano e degradante in violazione dell’art.3 della Corte europea dei Diritti dell’uomo (Cedu) – osserva Tranchina, che attraverso varie fonti ha potuto raccogliere e confermare le identità dei migranti deceduti». Non bastasse, «i sopravvissuti deportati in Libia sono stati immediatamente riportati in detenzione illegale e arbitraria in condizioni disumane, dove stanno subendo trattamenti inumani e degradanti » e sono a rischio di morire «o soffrire di nuovo torture, stupri, schiavitù e altre forme di traffico per sfruttamento in violazione delle norme internazionali».
I primi a morire sono stati forse i più audaci. Forse i più disperati. Dopo cinque giorni senza alcun aiuto, le ultime forze le hanno affidate alla sorte. «Avevamo visto un aereo che ci ha illuminato con una luce rossa », ha raccontato una ragazza da Tarik al Sikka: «Abbiamo sollevato il neonato per far vedere che non potevano più stare lì». Ma nessuno ha ordinato l’avanti tutta per andare a prenderli. E allora Filmon Mengstab, Mogos Tesfamichael, Hdru Yemane, Huruy Yohannes, Omer Seid, Hzqiel Erdom e Teklay Kinfe si sono buttati.
Nel buio. Gli altri, hanno sentito che il vento gridava più forte di loro. Poi più nulla. Nohom Mehari e Kidus Yohannes sembrano già morti quando arriva, alle 5 del mattino, il motopesca da Malta. Filmon Habtu, Filmon Desale a Debesay Rusom, erano certamente vivi. Stremati, affamati d’aria, i corpi che tremavano. Nel porto di Tripoli li hanno sbarcati dentro a una sacca di plastica.