Un negozio al mercato di Tokyo, in una foto di marzo 2023 - Reuters
Mentre cerca di orientarsi per meglio rispondere alle conseguenze della crisi pandemica e alle rinnovate sfide internazionali, il Giappone rischia di perdere entro un biennio un terzo delle sue piccole imprese, spesso a conduzione familiare. È il frutto di problematiche che sono ormai strutturali e che finora la politica ha mancato di affrontare con incisività. Tra queste sicuramente la discesa demografica, che nel 2022 ha visto un nuovo record con un saldo negativo tra decessi e nuove nascite di 800mila individui.
La prospettiva di una contrazione che porterà i giapponesi – oggi 123 milioni – a scendere sotto i 100 milioni alla metà del secolo si rafforza e non serve a rasserenare un orizzonte segnato da decenni di stagnazione o prospettive su cui si addensano le ombre di rinnovate tensioni se non di conflitto in Estremo Oriente. Questo non viene ignorato da una popolazione che resta comunque in maggioranza poco sensibile ai provvedimenti a sostegno delle nascite perché intimorita dalla carenza delle infrastrutture per l’infanzia, dalla difficoltà per le donne a conciliare impiego e cura dei figli e dai costi eccessivi della prole, in un contesto reso ancora più incerto dalle conseguenze del distanziamento sociale e dalla difficoltà di molti a reperire le risorse necessarie per la famiglia o l’impresa.
Allo snodo tra queste problematiche sta ora il rischio, paventato dallo stesso governo guidato da Fumio Kishida, che oltre il 30% delle piccole manifatture e iniziative commerciali possa scomparire entro il 2025. Di «un’era di chiusure di massa» di piccole attività imprenditoriali parla anche la Teikoku Databank, centro specializzato in ricerche sullo stato delle imprese, sottolineando le dimensioni del problema. A confermarlo è anche un rapporto governativo che nel 2019 valutava in 1,27 milioni i piccoli imprenditori che entro il 2025 avrebbero superato i 70 anni (considerata l’età massima per il pensionamento) senza avere eredi in grado di proseguire l’attività, spesso ereditata a loro volta. Lo stesso rapporto segnalava come il verificarsi di questa prospettiva potrebbe cancellare 6,5 milioni di posti di lavoro e incidere sull’economia per l’equivalente di 166 miliardi di dollari l’anno. Non solo.
In una nazione dove la speranza di vita per gli uomini è di 82 anni, il superamento entro il 2029 del traguardo degli ottant’anni di molti nati negli anni del boom demografico potrebbe falcidiare la gestione di un gran numero di aziende dove gli ultrasettantenni mantengono spesso un ruolo di indirizzo o la proprietà.
Nel contesto aziendale giapponese di forte struttura piramidale con i vertici spesso in età avanzata, questo decennio potrebbe vedere conseguenze pesanti sui due versanti, occupazionale e economico. Il lavoro non manca, ma per i giovani è sempre meno garantito o definitivo mentre restano ostacoli all’accesso ai livelli dirigenziali. Sicuramente la stagnazione prolungata ha reso meno appetibile per loro lavorare nell’artigianato, nella meccanica, nel commercio al dettaglio e nella ristorazione settori caratterizzati da imprese di dimensioni piccole e spesso minuscole e improntare a rapporti fiduciari ma anche a grande dedizione. Fuori dai grandi centri urbani lo spopolamento avanza e porta alla chiusura di molte attività. Non solo quelle in crisi conclamata ma anche quelle, perlopiù a conduzione familiare, che gli anziani proprietari preferiscono chiudere piuttosto che cederle a estranei.
C’è la seria preoccupazione che l’elevato numero di chiusure possa influenzare, se non addirittura relegare al passato, un gran numero di attività artigianali, tradizioni culinarie, produzioni specializzate di grande raffinatezza che sono una delle caratteristiche dell’arcipelago più apprezzate anche dagli stranieri che sono tornati a alimentare l’imponente flusso turistico verso il Paese del Sol levante.