("Guess where he is from", William Murphy via Flickr https://flic.kr/p/QHfHuD)
È ancora presto per dire in che modo l’uscita dall’Unione Europea cambierà le sorti dell’economia britannica. Finché la trattativa tra Londra e Bruxelles non regolerà i termini per l’uscita e, soprattutto, la forma dei futuri rapporti tra il Regno Unito e i ventisette paesi che continueranno a fare parte dell’Ue. Le variabili sono moltissime, compresa l’ipotesi della secessione della Scozia, che vorrebbe restare europea. Nell’attesa occorre accontentarsi di stime generali sugli effetti della Brexit sull’economia britannica, sapendo però che c’è già una certezza: sono pochissimi gli economisti che si aspettano che lasciare l’Ue farà bene al Regno Unito.
La crescita
In uno studio pubblicato lo scorso 24 giugno, il giorno dopo il voto per l’uscita dell’Ue, Iain Begg e Fabian Mushövel, economisti della London School of Economics, hanno raccolto i risultati di nove autorevoli stime sugli effetti della Brexit e soltanto una di queste analisi, quella degli “Economisti per la Brexit” (gruppo che si è ribattezzato “Economisti per il libero scambio” dopo il successo del referendum), è convintamente ottimista. In particolare Patrick Minford, economista dell’Università di Cardiff, prevede che la crescita del Prodotto interno lordo del Regno Unito da qui al 2030 sarà superiore del 4% rispetto a quanto sarebbe stata rimanendo nell’Unione Europea. Questo perché, nell’analisi di Minford, abbracciando completamente il libero scambio nel quadro del Wto, senza i vincoli decisi a Bruxelles, il Regno Unito potrebbe sfruttare al massimo il vantaggio competitivo internazionale che la sua economia ha in alcuni settori, soprattutto nell’ambito dei servizi. Nello stesso tempo una discesa dei prezzi dell’8% aumenterebbe il potere di acquisto delle famiglie.
Sono pochi però gli economisti d’accordo con questo scenario. Sette delle nove analisi raccolte dai ricercatori dell London School of Economics dicono che fuori dall’Europa il Regno Unito crescerà meno di quel +30% circa di Pil stimato da qui al 2030 in una situazione di statu quo. Le analisi più pessimistiche, quella del Centre for Economic Performance della stessa London School of Economics e quella del National Institute of Economic and Social Research, arrivano a indicare un Pil britannico inferiore di quasi il 10% di quanto sarebbe stato se il Paese fosse rimasto in Europa. La media delle analisi “negative” indica come risultato della Brexit un Pil più basso nell’ordine del 3-4% a causa, in sintesi, del mancato accesso al mercato unico e della minore capacità di attrarre capitali e investimenti.
I posti di lavoro
Inevitabilmente le stime sugli effetti della Brexit sull’occupazione nel Regno Unito vanno nella stessa direzione di quelle sul Pil: se l’economia britannica crescerà meno sarà anche meno capace di creare posti di lavoro. Anche in questo caso dunque molto dipende dagli accordi che Londra saprà trovare con Bruxelles. In ogni caso la Brexit può distruggere posti di lavoro in alcuni settori e generarne in altri. Sicuramente sono molto a rischio le poltrone della City, che è il più grande distretto finanziario d’Europa e che ha scarsissime possibilità di potere conservare questo ruolo diventando esterna all’Ue. Xavier Rolet, amministratore delegato della London Stock Exchange, in audizione al Tesoro ha detto che se il governo inglese non saprà gestire in maniera ordinata l’uscita dall’Unione Europea rischierà di perdere addirittura 232mila posti di lavoro nella finanza. Una specie di massacro, considerato che la City fa lavorare circa 352mila persone. Un’analisi più cauta, del think tank europeista Bruegel, vede a rischio 30mila posti, con le grandi banche d’affari che sposterebbero nelle città dell’Europa continentale tutte le attività collegate all’area europea. Francoforte, Parigi, Dublino e Amsterdam sono pronte a darsi battaglia per questi ricchi impiegati della finanza.
Rischiano molto, più in generale, anche gli altri occupati nel campo dei servizi, che rappresentano il 41% della forza lavoro britannica: senza un accordo che garantisca loro l’accesso ai mercati esteri, molte attività che hanno bisogno di un’audience estesa per lavorare, ad esempio tutte quelle del digitale, potrebbero essere costrette al trasloco.
Potrebbero invece assumere quelle industrie che lavorano per il mercato interno, perché l’uscita dall’Europa con accordi protezionistici le metterebbe al riparo dalla concorrenza straniera. Se il progetto britannico consiste in un rilancio del manifatturiero, però, la bilancia generale dei pro e dei contro pende dalla parte degli aspetti negativi, perché molta dell’industria britannica — a partire dalla produzione di auto — dipende dalle esportazioni.
E l’Italia?
L’Italia non sarebbe tra i paesi europei più danneggiati da un’uscita “scomposta” del Regno Unito dall’Ue. Siamo solo il nono partner commerciale dei britannici, verso i quali è comunque diretto il 5,5% del nostro export (principalmente auto, prodotti farmaceutici e vino). Bisognerà capire se Londra intenderà imporre dazi o tariffe su prodotti di questo tipo. Il capo economista dell’Ocse, Catherine Mann, ha azzardato una stima, indicando che l’uscita di Londra potrebbe costare un 1% dell’export al Made in Italy.
L’incognita maggiore riguarda gli emigrati, i tanti nostri connazionali che studiano e lavorano in terra inglese. Sono 270mila gli italiani registrati come residenti nel Regno Unito, ma secondo alcune stime la comunità italiana in Inghilterra conta oltre 600mila persone. Uno dei punti più difficili del negoziato tra Londra e Bruxelles riguarderà la possibilità per questi cittadini europei di ottenere a livello di permessi di lavoro o di studio un trattamento di favore rispetto agli immigrati che arrivano dal resto del mondo. Altrimenti anche molti di loro finiranno per dovere fare le valigie e magari cercare fortuna in uno dei ventisette Paesi rimasti dentro l’Unione Europea.