Considerate se questo è un uomo, che lavora nel fango, che non conosce pace, che lotta per mezzo pane, che muore per un sì o per un no». I versi introduttivi del celebre romanzo di Primo Levi sono ispirati all’antica preghiera dello "Shemà" (Ascolta). Una delle preghiere ebraiche più sentite che esorta a considerare. E considerate adesso i tempi e i luoghi: tre giorni, tre città, tre religioni della comune discendenza abramitica. E tre parole: unità, giustizia, pace. In un’unica terra: quella di Dio. Forse questo viaggio sarà solo una preghiera. Certo è che la visita di papa Francesco in Terra Santa non è una visita papale come quelle dei suoi predecessori. Non è solo la visita del Papa a Gerusalemme.
È il viaggio del patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, successore dell’apostolo Andrea, e di papa Francesco, successore di Pietro e vescovo di Roma «alla madre di tutte le Chiese». Insieme. Come fratelli di Chiese sorelle. Che insieme hanno deciso di compiere, già nel loro primo incontro avvenuto all’inizio del pontificato di Francesco. È un passo avanti rispetto all’abbraccio di Paolo VI e Atenagora di cinquant’anni fa in Terra Santa, nel quale quell’incontro, al Monte degli Ulivi, rappresentò il culmine della visita papale. È una prospettiva di sguardo che ora si dispiega e si rinsalda profondamente. Con tutto quello che tale ritorno insieme alle sorgenti può significare e comportare per entrambe le Chiese; perché l’andare alle origini, alle fonti sorgive sempre illumina, apre, muove oltre. È dunque un appuntamento senza precedenti quello che si svolge oggi nel cuore delle divisioni tra i cristiani, nella Basilica del Santo Sepolcro, in arabo detta «della Risurrezione».
Che non significa solo un addio ai protocolli collaudati. È la strada per i cristiani delle diverse Chiese che sono chiamati a un cammino condiviso, per far progredire le vie di Dio, per affrontare le necessità concrete in relazione al comune impegno per la promozione della dignità della persona e della pace. Il focus ecumenico non si disgiungerà anche dal carattere interreligioso della visita. Papa Francesco avrà sempre al suo fianco in tutte le tappe un rabbino e un imam. Segno del dialogo aperto, del desiderio di approfondire il significato spirituale di quel legame che unisce le tre religioni monoteiste che riconoscono in Abramo il padre di tutti credenti. E segno di uno scambio fraterno per trattare e comprendere le realtà, in vista del bene comune. Considerato nel suo insieme questo viaggio ecumenico è quasi un’icona viva e attuale delle prospettive aperte dal Concilio Vaticano II.
Ma l’abbraccio ecumenico, non riguarda solo cattolici e ortodossi, anzi oltrepassa gli stessi cristiani, ebrei, musulmani. Perché l’ecumenismo non è fine a sé stesso. L’unità dei cristiani non è un "serrate le file" motivato da ragioni ideologiche o di egemonia mondana, è un dono di grazia implorato dallo stesso Gesù al Padre come segno di riscatto dal male, come riverbero visibile di redenzione e perciò ha come naturale orizzonte il destino dell’umanità, tutti gli uomini e tutte le donne del mondo. Perché «la Chiesa è, in Cristo, il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» dice la "Lumen Gentium". Ed è più che mai vitale in questo lembo di terra da dove ha avuto inizio la storia della salvezza, sopraffatta dall’inimicizia, spezzata dallo scontro che continua a infiammare il Medio Oriente, lacerata dal conflitto israelo-palestinese, paradigmatico di tutti i conflitti che lacerano l’umanità.
Francesco entrerà nella ferita viva della memoria di un popolo, entrerà allo Yad Vashem. E si affaccerà sull’abisso del male della Shoah. Su quel male abissale che porta l’uomo anche nel presente al disconoscimento della solidarietà umana, all’indifferenza cinica per il dolore altrui, all’abdicazione dell’intelletto. «Viltà abissale che è anche in maschera di virtù guerriera, di amor patrio, di fedeltà a un’idea» dicono ancora le parole di Primo Levi. Quali parole pronuncerà Francesco?
Il viaggio ecumenico viene in un momento cruciale. Nel pieno dello stallo dei processi di pace. Le aspettative sono alte specialmente da parte di coloro che patiscono oppressione e povertà, che soffrono sistematiche ingiustizie. E la visita sarà seguita con ansia anche da chi ha paura di perdere o di mettere in discussione forme e privilegi acquisiti. E guarda con celata diffidenza a questo "nuovo" Francesco che ritorna in Terra Santa sulle orme di Cristo e predica di uscire dai propri recinti, si commuove davanti alle moltitudini e non ha paura di guardare, di toccare, di abbracciare le piaghe di Cristo.
Potranno crollare gli steccati delle divisioni? Potranno riprendere i negoziati? E Gerusalemme sulla quale Cristo ha pianto potrà mai essere città aperta? Potrà mai essere città della pace come dice il suo nome? Intanto, quello che comincia e si prospetta, da oggi. Un viaggio che interpella le coscienze, un grido al Padre, un atto reale e profetico segnato da gesti più eloquenti delle parole. Che inizia evangelicamente dai bambini che Francesco incontrerà a Betlemme, in Palestina, e terminerà con il silenzio di un’invocazione davanti al Muro del pianto dopo aver attraversato l’altro muro, quel muro che ferisce la dignità di ogni uomo e separa la nascita dalla risurrezione.