sabato 16 novembre 2024
L'arcivescovo di Tunisi racconta il senso della sua missione: «Siamo una comunità molto piccola che testimonia il Vangelo con la carità e la fraternità»
L'arcivescovo di Tunisi Nicolas Lhernould

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Con i suoi 30mila fedeli, quasi tutti stranieri, la comunità cattolica di Tunisia si colloca in una posizione di estrema minoranza in un Paese di 12 milioni di abitanti quasi esclusivamente musulmano La tradizione cristiana, però, è antichissima e sono molte e pregevoli le vestigia risalenti ai primi secoli dopo Cristo. In questi ultimi decenni, la Chiesa di Tunisia è cambiata molto. Ma l’impegno resta sempre lo stesso: rimanere aperta al dialogo e all’incontro, che si realizzano soprattutto nella presenza in vari contesti e nell’attenzione ai più deboli e vulnerabili, con uno sguardo rivolto anche ai popoli subsahariani che arrivano o transitano dal Paese e un altro al Mediterraneo verso il quale si avventurano pure molti giovani tunisini.

A guidare l’unica grande diocesi del Paese c’è, dallo scorso 4 aprile, l’arcivescovo Nicolas Lhernould, francese di 49 anni, che di questa Chiesa è “figlio”. È stato infatti ordinato qui nel 2004 e, dopo due anni come vescovo di Costantina in Algeria, è tornato a Tunisi.

Eccellenza, quali sono gli aspetti che caratterizzano la Chiesa tunisina?

«Ci sentiamo una famiglia e questo lo condividiamo con tutte le Chiese del Nord Africa. Quella della Tunisia, in particolare, è una famiglia che ha origini molto antiche. I primi martiri risalgono al II secolo. Ma è anche una Chiesa che è cambiata molto dopo l’indipendenza del 1956. Se un tempo era più francese e italiana, anche per la presenza di molti siciliani, adesso è davvero internazionale, multietnica e multiculturale. Siamo una Chiesa universale in miniatura».

Una ricchezza, ma anche una sfida.

«Non è sempre facile. È la bellezza dell’amore fraterno vissuto nella diversità e nella piccolezza. Siamo per molti versi una Chiesa fragile e parca di mezzi, sia in termini di personale sia di risorse economiche. Ma continuiamo a portare avanti la nostra testimonianza in questa realtà musulmana, anche attraverso alcune opere e piccole strutture».

Rispetto ad altre realtà del Nord Africa, in Tunisia è ancora permesso alla Chiesa di gestire alcune scuole. Come sono percepite dalla società tunisina?

«Abbiamo nove scuole, dalle materne alle medie, con circa seimila studenti. La nostra attività educativa è apprezzata. C’è fiducia. Noi seguiamo i programmi dello Stato, compreso l’insegnamento della religione musulmana. Vorremmo contribuire a crescere buoni cittadini e anche buoni fedeli nella loro religione, nell’apertura umana e culturale all’alterità».

Oggi però molti si lamentano che il livello generale dell’istruzione si stia abbassando, mentre cresce la sfiducia nel futuro anche a causa della crisi economica che sta mettendo in difficoltà molte famiglie. È così?

«L’educazione è sempre stata un pilastro del modello sociale tunisino. Ora, però, tante famiglie fanno fatica a mandare tutti i figli a scuola. E molti giovani pensano di poter avere un futuro solo altrove. È come se mancasse la speranza, malgrado una resilienza notevole del popolo tunisino in generale. Noi vorremmo lavorare per tenere viva e contribuire a sviluppare una speranza comune».

Quali forme di dialogo portate avanti con il mondo musulmano?

«Un proverbio di qui dice che “non si sceglie la casa ma il vicino”. Quindi crediamo molto nei rapporti della vita quotidiana come base per qualsiasi dialogo. Questo fa parte anche del nostro modo di radicarci in questa società, riconoscendoci autenticamente come cittadini del Paese. Dopodiché portiamo avanti anche alcune opere di carità che non vogliono in nessun modo avere un’impostazione paternalistica, ma che intendono aiutare le persone in difficoltà a rialzarsi e a riprendere in mano le loro vite».

In ambito culturale, l’Istituto delle belle lettere arabe (Ibla) dei Padri Bianchi resta un punto di riferimento?

«È certamente un luogo privilegiato di dialogo. Così come lo sono altre iniziative più specifiche come i centri culturali e le biblioteche della diocesi, o il Gruppo di ricerca islamo-cristiano (Gric)».

A livello di Conferenza episcopale del Nord Africa (Cerna), quali sono i punti comuni su cui state lavorando?

«Cerchiamo di portare avanti una riflessione teologica sulle tematiche della missione. La modalità in cui la viviamo noi – a partire dalle icone bibliche della Visitazione e dell’Epifania –, in un contesto in cui il nostro fratello è musulmano, significa innanzitutto essere dono gratuito per l’altro. È la nostra peculiarità».

Lei è impegnato anche nella teologia dal Mediterraneo. Quale contributo può dare la sponda Sud?

«Il processo voluto da papa Francesco nasce dalla consapevolezza che ci sono temi che ciascuna Chiesa e ciascun popolo non possono affrontare da soli, da quello dell’educazione alle questioni sociali, dalla giustizia e pace all’ecologia sino al dialogo interreligioso. Credo che questo percorso possa costruire fraternità e soluzioni concrete davanti alle sfide comuni, attingendo al meglio delle risorse umane e spirituali di ciascuno. È un’esperienza positiva di reciproca fecondazione di riflessioni e buone pratiche».

Un tema comune, molto sensibile, è quello dei migranti. In quale modo lo affrontate?

«Credo sia importante interrogarsi innanzitutto sulle cause profonde che spingono le persone a spostarsi e che riguardano spesso conflitti, crisi climatica, diseguaglianze, ma anche il desiderio di un “paradiso” che spesso non c’è. Dopodiché, per quanto ci riguarda, cerchiamo di mettere in campo la pastorale del Buon Samaritano, aiutando le persone che soffrono e provando a sollecitare i migranti a ritrovare una bussola e a domandarsi quale sia davvero il loro progetto di vita.



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