L’aula del Concilio Vaticano II in San Pietro durante i lavori della grande assemblea ecclesiale (1962-1965)
Un Papa proveniente dalla cattedra di sant’Ambrogio e un vescovo d’oltreoceano martire, profondamente legati, salgono oggi uniti da Francesco al culto della Chiesa universale. Fin dal suo primo incontro con Paolo VI il vescovo di San Salvador, Oscar Romero, aveva ricevuto sostegno a proseguire con coraggio nella sua difficile missione, ostacolata anche da gravi incomprensioni interne, diffamazioni e calunnie. Venti giorni prima del suo assassinio, quasi quarant’anni fa, aveva detto in una predica: «Per me il segreto della verità e dell’efficacia della mia predicazione è stare in comunione con il Papa». E il rapporto con Paolo VI costituiva per lui un riferimento decisivo per identificare le sue responsabilità e modellare la sua fisionomia di vescovo sulle esigenze del Vangelo, del Concilio e del magistero.
E anche con l’espressione di questa fedeltà egli aveva vissuto pienamente il suo motto episcopale di matrice ignaziana: Sentire cum Ecclesia e quindi nella Chiesa. Significativamente la loro canonizzazione cade oggi nel mezzo di un Sinodo, istituzione voluta come eredità conciliare ed elevata nel 1965 proprio da Paolo VI. Coincide anche con il cinquantesimo della Conferenza generale degli episcopati latinoamericani, inaugurata e presieduta da Paolo VI a Bogotà nel 1968, che ha pure rappresentato la prima visita di un Papa al continente americano. Ma soprattutto la doppia canonizzazione è opportunamente declinata nella contingenza di un cammino sinodale che proprio con il Successore di papa Montini, figlio della Chiesa latinoamericana, ha recuperato la sua antica e fondamentale dimensione: quella di un reale dinamismo di ascolto che deve implicare tutti i livelli della vita della Chiesa, a partire dal popolo di Dio, del quale i vescovi sono parte come pastori così come il Papa, in quanto supremo servitore-testimone della fides totius Ecclesiae e garante dell’unità.
Del resto il De opportunitate canonizzationis, cioè l’opportunità di una canonizzazione in relazione all’oggi, è norma integrante dello stesso processo canonico, perché in ogni causa si deve sempre rilevare l’importanza e il significato che questa riveste per la Chiesa del suo tempo e per quello presente. E qui si tratta di una canonizzazione dal duplice significato. Entrambi sono stati autentici interpreti del Concilio, capaci di coniugare tradizione e modernità, e per entrambi il destino fu segnato dalle calunnie. Paolo VI è il “Papa del dialogo” che ha portato a compimento il Vaticano II e Oscar Romero è il primo grande testimone della Chiesa del Concilio, ucciso in odium fidei per mano di uomini di regimi idolatri, che si proclamavano cattolici, armati dall’odio della persecuzione più violenta, quella che viene dall’interno.
Un vescovo che applicava all’inferno di quegli anni ciò che aveva visto descritto nelle opere dei Padri della Chiesa. Che ricorreva a sant’Agostino e a san Tommaso per giustificare chi si solleva contro la tirannia sanguinaria. Che citava la Populorum progressio e che pochi mesi prima di morire, a un giornalista venezuelano che gli rifa- ceva l’ennesima domanda sulla sua “conversione” da prete all’antica a pastore militante sbilanciato in politica, aveva risposto chiaro: «La mia unica conversione è a Cristo, e lungo tutta la mia vita». Era il 1978 e a un altro che gli domandava se il suo pensiero poggiasse sulla teologia della liberazione il vescovo aveva risposto che il suo pensiero teologico «è uguale a quello di Paolo VI, definito nella Evangelii nuntiandi ». Il ricordo dettagliato della sua ultima udienza con papa Montini, a testimonianza della fedeltà al magistero della Chiesa, si trova nel diario dell’arcivescovo. «Paolo VI mi ha stretto la mano destra e l’ha trattenuta a lungo fra le sue due mani e pure io ho stretto con le mie due mani la mano del Papa».
«Comprendo il suo difficile lavoro – gli disse papa Montini –, è un lavoro che può essere incompreso e ha bisogno di molta pazienza e fortezza ma vada avanti con coraggio, con pazienza, con forza, con speranza». È noto che Paolo VI ebbe sempre nel cuore la cristianità dell’America Latina e che il suo documento pastorale, l’Evangelii nuntiandi, resta senza dubbio – come affermato più volte da Francesco – il documento pastorale del post Concilio che oggi è ancora attuale. A seguito del Vaticano II si era andata formando in America Latina una nuova coscienza di Chiesa che dalla Conferenza dell’episcopato latinoamericano di Medellin nel 1968, – nella quale con la centralità dei poveri si rimetteva in piena luce la dottrina sociale della Chiesa – passando attraverso l’Evangelii nuntiandi e la Populorum progressio di Paolo VI ha portato alla quinta Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano e dei Caraibi tenutasi ad Aparecida in Brasile nel 2007. E da lì è confluita nell’esortazione programmatica di papa Francesco Evangelii gaudium. Lungo quedialogo sto percorso si è trovato Romero, come pioniere di un disegno che trovò conferma proprio ad Aparecida: «Un’altra Chiesa è necessaria. Un’altra Chiesa è possibile».
Lungo questo percorso si è formato papa Francesco. Se per Montini, come per Romero, è stata prioritaria una Chiesa di dialogo, la via su cui la Chiesa è chiamata oggi a camminare è il dialogo. E nel magistero di Francesco dire dialogo non è una parola ma una descrizione fondativa, che racchiude una prospettiva ecclesiale ed ecclesiologica. Perché quando si dice dialogo nella Chiesa, si dice colloquium salutis, ovvero la fedeltà a Cristo nell’Ecclesiam suam. Il dialogo infatti è radicato nell’agire di Dio verso l’uomo, come tutta la storia della salvezza evidenzia. Non si tratta dunque di strategia pastorale ma di assumere il metodo di Dio e di continuarlo nel dipanarsi del tempo. Ciò implica che il dialogo interno alla Chiesa e della Chiesa con il mondo riceve da Dio i suoi contenuti e i suoi metodi. Francesco mostra e descrive continuamente quanto Paolo VI scrisse nella sua prima enciclica Ecclesiam suam e nella quale proprio il fiorisce per la prima volta nei documenti del magistero con un’accezione programmatica: «La Chiesa si fa parola, la Chiesa si fa messaggio, la Chiesa si fa colloquio».
Ed è la nota acuta nei testi del Vaticano II, la ritessitura di un dialogo interrotto e stracciato. Fin dall’inizio del pontificato Francesco ha posto il dialogo a bussola orientativa della sua missione facendosi erede delle vie indicate dal Vaticano II. E riproposte a 360 gradi sia all’interno della Chiesa – come documenta il processo sinodale attuale e quelli passati sulla famiglia – sia nel proporre «la cultura dell’incontro», ribadendo che la centralità della missione ecclesiale richiede il dialogo con tutti: è la Chiesa come fruttificazione della semina che fu il pontificato di Paolo VI. «Mi ritornano alla mente le sue parole, con le quali istituiva il Sinodo dei vescovi – affermava papa Francesco il giorno della sua beatificazione nell’ottobre 2014, anch’essa nel mezzo di un Sinodo –: “Scrutando attentamente i segni dei tempi cerchiamo di adattare le vie e i metodi (...) alle accresciute necessità dei nostri giorni e alle mutate condizioni della società”».
E citata la lettera montiniana Apostolica sollecitudo continuava: «Nei confronti di questo grande Papa, di questo coraggioso cristiano, di questo instancabile apostolo, davanti a Dio oggi non possiamo che dire una parola tanto semplice quanto sincera e importante: grazie! Grazie per la tua umile e profetica testimonianza di amore a Cristo e alla sua Chiesa!». La stessa testimonianza portata fino all’effusione del sangue dal vescovo salvadoregno. Che la proclamazione della loro santità avvenga nel contesto di un Sinodo sulle nuove generazioni assume una risonanza carica di significati e di prospettive. Lungo una rotta imperscrutabile, disegnata dal Signore, si è compiuto un cammino dal quale non si torna indietro, che è al tempo stesso una traditio lampadis, una consegna ai giovani delle direzioni su cui la Chiesa è chiamata ad andare avanti. © RIPRODUZIONE RISERVATA Nel magistero del primo Papa sudamericano risuonano la profezia di Montini e la fedeltà radicale di Romero al Vangelo.