giovedì 4 ottobre 2018
L’arcivescovo di Agrigento, cardinale Francesco Montenegro, ha concluso la celebrazione di chiusura della fase diocesana del processo di beatificazione e canonizzazione
L’intervento ad Agrigento del cardinale Montenegro alla chiusura della fase diocesana della causa di beatificazione del giudice Rosario Livatino ucciso dalla mafia nel 1990 (Carmelo Petrone)

L’intervento ad Agrigento del cardinale Montenegro alla chiusura della fase diocesana della causa di beatificazione del giudice Rosario Livatino ucciso dalla mafia nel 1990 (Carmelo Petrone)

COMMENTA E CONDIVIDI

«Un immigrato salvato dalla Guardia costiera mi disse “Non c’e niente di più bello che vedere spuntare la luce del sole”. Credo che la presenza del giudice Livatino è proprio un sole che splende in questa terra dove siamo abituati a sottolineare il buio. Il nostro impegno è di tenere accesa quella luce». Così l’arcivescovo di Agrigento, il cardinale Francesco Montenegro, ha concluso la celebrazione di chiusura della fase diocesana del processo di beatificazione e canonizzazione del servo di Dio Rosario Angelo Livatino. Poi la lettura degli atti formali e i sigilli in ceralacca ai pacchi con la documentazione raccolta da inviare a Roma alla Congregazione delle cause dei santi. Proprio oggi il “giudice ragazzino” avrebbe compiuto 66 anni, ricorda Montenegro, «e noi consegniamo questo lavoro all’amore misericordioso di Dio; anzi, volendo attingere a uno dei tratti tipici dei giudice Livatino, lo mettiamo “sotto la tutela di Dio”; sotto il suo sguardo di Padre che continua a indicarci nella giustizia la strada sicura in cui trovare la salvezza».

È la citazione della sigla “Std” che Livatino scriveva sulle sue agende, l’ultima delle quali fu trovata accanto al corpo. La chiesa di Sant’Alfonso è piena, molti hanno conosciuto il giudice ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990. Come Mimmo Bruno, ex commissario del Corpo forestale siciliano, che collaborò col magistrato nelle prime inchieste in materia ambientale. «È un giorno importante sia per chi ha a cuore la giustizia, quella vera, sia per chi crede davvero in Dio. Sono due cose che nel dottor Livatino coincidevano, da uomo mite e nello stesso tempo coraggioso», ci dice con gli occhi umidi per la commozione. Così come il professor Gaetano Augello, suo insegnate di italiano e latino al liceo e incaricato di predisporre la relazione storica per il processo di canonizzazione. «Era un ragazzo splendido nella normalità. Di grande intelligenza e di grande fede, ma non bigotto. Una figura attualissima, un esempio per i giovani di oggi». Ne è convinto anche il postulatore, don Giuseppe Livatino. «Siamo riusciti a dare un’immagine vera, non quella del santino. Lui riesce a coniugare giustizia e carità perché questa è la volontà di Cristo. Dal questo nasce il senso di umiltà che deve avere chi giudica, nel considerare che solo Dio è giudice assoluto e giusto, e che chi hai di fronte non è solo un imputato ma una persona titolare di diritti».

Ma cosa ha spinto Livatino, si chiede il cardinale, «a dare se stesso per la causa della giustizia? Tanti altri prima di lui e dopo di lui, purtroppo, sono morti per lo stesso motivo. Ha fatto il suo dovere ma perché portarlo agli onori degli altari?». La “bussola” è nelle parole di san Giovanni Paolo II, che lo definì «martire della giustizia e, quindi, indirettamente, della fede». Il Papa, sottolinea Montenegro, «orientava a cercare il motore che aveva mosso Livatino non solo nella causa della giustizia umana, ma nella fede cristiana, l’asse portante della sua vita di operatore della giustizia. Spinto da essa è stato capace di consumare tutta la sua vita». Per questo, aggiunge, «il nostro obiettivo non è stato quello di capire da chi o per quale ragione sia stato ucciso ma per chi ha speso tutta la sua vita». Dunque «molto di più del semplice adempimento del dovere » ma «impegnandosi a portare il Vangelo dentro ciò che era chiamato a vivere ogni giorno, nella ricerca della giustizia e nel rispetto della dignità di ogni persona». Due i messaggi attualissimi. «Se per decenni siamo stati inquinati dalla mafia e dalla mentalità mafiosa - e in parte continuiamo ad esserlo - la figura di Livatino ci ricorda che la mafia si può vincere solo se ci sarà l’impegno e il coraggio di tutti». In questo «per noi è il simbolo di una società cristiana che si vuole opporre al male e decide di sconfiggerlo con una vita buona animata dalla giustizia e dalla carità». Il secondo messaggio è «che per diventare santi non dobbiamo estraniarci dai nostri impegni ma, piuttosto, dobbiamo sporcarci le mani nelle fatiche quotidiane cercando di mantenere pulito l’abito battesimale. Livatino per noi è espressione di un cristianesimo fatto di unione con Dio e di servizio all’uomo, di preghiera e di azione, di silenzio contemplativo e di coraggio eroico».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: