I precedenti: nel 2011 quorum raggiunto su acqua e nucleare. Sono state finora 16 le tornate elettorali relative ai referendum abrogativi, da quello del divorzio del 1974 ai 4 quesiti del 12 giugno 2011 sull'acqua e il nucleare.
Dopo anni di massiccia partecipazione alle urne (tutti quorum
superati abbondantemente - con il record dell'87,7 nel 1974 -
tranne quelli sulla caccia e i pesticidi del 3 giugno 1990) le
sei consultazioni referendarie effettuate dal 1997 al 2009 non
hanno raggiunto il quorum del 50% più uno dei voti, necessario
per la validità dei referendum abrogativi. La sfida politica è tutta qui. Se si raggiungerà l'affluenza, è assai probabile che vincano abbondamente i sì e la legge sarà abrogata.
CLICCA PER INGRANDIRE
Nove regioni promotrici. Questo referendum abrogativo è stato promosso da nove Regioni (Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise) e produce effetti giuridici solo in caso di vittoria del 'sì'. In ogni caso, non sono in discussione tutte le concessioni petrolifere e – sul piano strettamente giuridico – il voto non avrà effetti sull’intera politica energetica del Paese: condizionerà solo alcune delle concessioni marine già riconosciute, ossia quelle ubicate entro le 12 miglia dalla costa o dalle aree protette (poiché le altre continueranno a durare al massimo 30 anni), che, diversamente dal passato e da tutte le altre concessioni pubbliche, in base alla legge di Stabilità sono rinnovate oltre la loro scadenza fino a che il giacimento non è più considerato remunerativo. Se tutta la questione si esaurisse qui, una vittoria del 'sì' imporrebbe unicamente di interrompere quelle perforazioni o di trattare nuovamente royalties e scadenze con le società minerarie (italiane e straniere). Quindi, nessuno stop immediato alle piattaforme attive né la perdita di posti di lavoro. Tuttavia, in caso di vittoria del 'sì' alla scadenza delle concessioni governative, decine di giacimenti dovrebbero essere abbandonati, con una perdita economica e occupazionale certa ancorché difficile da stimare, perché, come accade spesso in politica, i numeri vengono piegati alle convenienze di parte. LO SCENARIO SE VINCE IL SI', SE VINCE IL NOQuante piattaforme 'rischiano'. I numeri sono sufficientemente chiari se ci si ferma alla fotografia delle concessioni su cui impatta il referendum. Rispetto all’intera industria estrattiva, che conta, secondo il ministero dell’Ambiente, più di 1.200 pozzi che coprono il 10% del fabbisogno nazionale di gas e il 7% del petrolio, la consultazione popolare, stando ai dati di Legambiente, mette a repentaglio il 27% del totale del gas e il 9% del greggio estratti in Italia che rappresentano però lo 0,95% del fabbisogno nazionale di petrolio e il 3% di gas. Più analiticamente, il voto popolare condizionerà, in caso di vittoria del 'sì' il futuro delle 35 concessioni di coltivazione che si trovano entro le 12 miglia; di queste, 3 sono inattive, 1 è in sospeso e 5 non risultano produttive. Pertanto, sono 26 le concessioni attive (79 piattaforme e 463 pozzi) che rischiano di veder saltare il proprio piano industriale in caso di vittoria dei referendari e, di queste, 9 concessioni (38 piattaforme) sono già scadute o si trovano in scadenza e hanno già presentato una richiesta di proroga, mentre 17 (41 piattaforme) scadranno tra il 2017 e il 2027 e andranno alla normale scadenza anche in caso di vittoria dei 'sì'. Soldi e lavoro. Ben più complessa la stima degli effetti economici del referendum. Il ministro dell’Ambiente, Gianluca Galletti, nei giorni scorsi ha parlato di «ricadute occupazionali pesantissime» quantificando in «10mila posti più l’indotto e miliardi di investimenti» il costo di una vittoria del 'sì'. Valutazioni che Nuova Ecologia smonta così: «Assomineraria parla di 13mila occupati nel settore estrattivo in tutta Italia, tra attività a terra e a mare (dentro e fuori le dodici miglia) e 5mila posti di lavoro a rischio con il referendum (...). Le stime ufficiali riguardanti l’intero settore di estrazione di petrolio e gas in Italia (fonte Isfol - Ente pubblico di ricerca sui temi della formazione, delle politiche sociali e del lavoro) parlano invece di 9mila impiegati in tutta Italia e di un settore già in crisi da tempo. Secondo l’ultimo rapporto della società di consulenza Deloitte, il 35% delle compagnie petrolifere, a causa del crollo del prezzo del greggio, è ad alto rischio di fallimento nel 2016, con un debito accumulato complessivamente di 150 miliardi di dollari».
Le ragioni del sì. Il fronte del 'sì' è composito, perché va dalle Regioni ai comitati No Triv. Semplificando, chiede agli italiani di recarsi a votare il 17 aprile e di votare 'sì' perché le ricerche di petrolio e gas mettono a rischio gli habitat marini e non danno un beneficio durevole al Paese; in particolare, teme un incidente come quello avvenuto nel 2010 nel Golfo del Messico. Propone di convertire i lavoratori dell’industria mineraria nella produzione di energie rinnovabili da cui dipende più del 40% della nostra energia elettrica e che dà già lavoro a 60mila addetti, con una ricaduta di 6 miliardi di euro. Le ragioni del no. Anche il 'no' rappresenta una galassia complessa. Chi chiede agli italiani di non andare alle urne o di votare 'no' avanza motivi economici e ambientali: secondo gli Ottimisti e Razionali, se si limita la durata delle concessioni – oltre a perdere lavoro e ricchezza nazionale – ci saranno meno investimenti e quindi anche meno si- curezza degli impianti, la cui sostenibilità, comunque, è garantita dalla rigidità delle procedure autorizzative e dal fatto che questo tipo di industria produce meno rifiuti rispetto ad altre, come la chimica e la siderurgia. I cattolici. La Chiesa italiana in questi anni ha lavorato intensamente sui temi ambientali, una sensibilità catalizzata dalla 'Laudato si’': nelle scorse settimane alcuni vescovi, organismi diocesani e comunità si sono pronunciati in favore del sì al referendum. Esprimendo la posizione della Conferenza episcopale italiana, il segretario generale, monsignor Nunzio Galantino, ha spiegato che «non c’è un sì o un no da parte dei vescovi al referendum» ma ha invitato a «coinvolgere la gente a interessarsi alla questione». Manca il confronto ed invece bisogna «parlarne, non fermarsi al sì o al no, perché manca un sufficiente coinvolgimento delle persone. E non si tratta – ha sottolineato – del solo problema delle trivelle, domani ci sarà quello del nucleare, poi altri ancora. Manca piuttosto l’approccio culturale, il ragionare sulle cose».